Martedì 21 febbraio 2012
Dal 14 al 26 febbraio. Un testo intenso da scandire, sillabare, con pochi accenti acuti e bassi, come fanno tre brave e indovinate interpreti per un atto unico sulla catena del femminile che lega le donne di madre in figlia. Un divenire doloroso e irrisolto che vale la pena di penetrare, costruire senza interruzione e ricostruire, finanche restaurare dove necessario. Essenzialità per la complessità come il supporto delle rudi impalcature, un testo e una regia che possono divenire un classico.
LA CATENA DEL DANNO
atto unico di Pierluigi Marotta
regia di Flaminia Graziadei
con Giulia Bornacin, Salima Balzerani, Sara De Marchi
video istallazioni Flaminia Graziadei
art direction e costumi Grazia Colombini
musiche Michalis Koumbios Les Tambours du Bronx
In scena al Teatro dei Contrari, un delizioso salotto con arredamento eclettico a due passi dal Colosseo, dal 14 al 26 febbraio 2012, “La catena del danno”, atto unico di Pierluigi Marotta, per la regia di Flaminia Graziadei con Giulia Bornacin, Salima Balzerani e Sara De Marchi. Tre brave interpreti dotate del vantaggio di possedere il physique du rôle adatto, un merito della regia. Il testo è un tributo al mistero femminile e una provocazione al senso comune di possesso tra madre e figlia, così come di appartenenza; o meglio all’illusione che una tale condizione sia realizzabile. La catena del danno è la trasmigrazione del dolore e della colpa irrisolti quale eredità, ma è anche più puntualmente, in questo caso, il bisogno di tagliare violentemente il legame più forte della natura – quello di una madre verso la figlia – per acquisire la giusta distanza. Semplicemente inaccettabile. Solo che non può nascere felicità da una colpa così grande e contro natura. E’ questo che rimprovera la madre adottiva alla figlia ‘sciagurata’; quest’ultima parla invece solo di allentare ‘la morsa della maternità’, per lei che non avrebbe tanto voluto essere la vera figlia di una madre idolo, troppo perfetta per essere affettiva; ma alla quale, nella realtà, non si è mai sentita di appartenere. Il testo fa riflettere e andrebbe letto e riletto perché, nel seguire la vicenda, purtroppo, si perde più di un passaggio. In effetti non è chiaro – e mi pare il regista ci tenga a non prendere posizione – se la figlia abbia davvero trovato sé stessa e, al di là della difesa che mette in atto contro la società borghese, giudicante e perbenista, non è dato sapere se abbia una qualche serenità e se addirittura abbia trovato la felicità; o quanto meno sua figlia. Lo escluderei. L’idea che traspare è pesare l’assenza per far emergere l’attaccamento.
La recensione integrale su Saltinaria.it
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