giovedì 14 giugno 2012

“Teatro Proibito” - Un secolo di censura teatrale in Italia dall’Unità al 1962

Martedì 28 febbraio 2012
Una presentazione in versione semiscenica, come si conviene al tema dell’opera. Un saggio sulla censura in teatro con uno sconfinamento nel cinema e nella televisione per raccontare un’Italia che dice no alla libera espressione, ben al di là della chiusura dell’Istituto per la censura nel 1962.






Teatro Proibito - Un secolo di censura teatrale in Italia dall’Unità al 1962a cura di Federica Festa
Roma, Sabato 25 febbraio alla Casa dei Teatri (Villa Pamphilij)
Sono intervenuti
Giancarlo Sammartano, Regista teatrale
Antonia Brancati, Autrice e concessionaria teatrale
Daniele Miglio e Rosa Inserra leggono alcuni brani di testi censurati
Editoria&Teatro

Una presentazione in versione semiscenica, come si conviene al tema dell’opera. Un saggio sulla censura in teatro con uno sconfinamento nel cinema e nella televisione per raccontare un’Italia che dice no alla libera espressione, ben al di là della chiusura dell’Istituto per la censura nel 1962. Anche un modo per evidenziare l’impatto ‘compromettente’ dell’arte sulla collettività con incursioni storiche a scomodare Aristotele fino ai più recenti giochi di potere. Il timbro ‘respinto’ o ‘non approvato’, sul dieci per cento dei copioni italiani o tradotti in italiano la dice lunga sulla vita difficile del teatro nel periodo preso in esame dal saggio critico; altra soluzione la dilazione dei tempi che, comportando ostacoli e costi in crescita, scoraggia lo spettacolo. A seconda dei periodi storici cambiano le parole prese di mira o i concetti tabù, non il merito.
Così nel Regno Sabaudo si censurano 342 copioni dove si rintracciano le parole libertà, tiranno, re, principe o barbaro; poi dal 1862 è vietata la rappresentazione di 29 testi su 30, da parte dei Prefetti, perché incentrati sulla figura di un eroe ormai scomodo, Giuseppe Garibaldi. Dal 1929 il Fascismo centralizza l’attività di ‘correzione’ dell’arte con l’istituzione di un ufficio preposto. Con il 1945 si cambia la forma ma non la sostanza, censurando la veste della morale pubblica più che la politica.
E’ la legge Fanfani nel 1962 ad abolire la censura preventiva dichiarando di voler eliminare “Ogni criterio di carattere politico nell’attività di censura”. Le battaglie cambiano stile e obiettivi, ma restano.
Il volumetto si annuncia gradevole e frizzante alla lettura, ricco di spunti con un’angolatura differente nel guardare lo spettacolo che, chi come me ha avuto la fortuna di imbattersi in regimi autoritari, conosce bene.
Tra i tanti aneddoti ed episodi, cito qua e là quelli che mi sono rimasti più impressi, senza seguire un ordine cronologico.
All’inizio degli Anni Cinquanta del Novecento, ad esempio, non si poteva scherzare sulle debolezze di Pietro e su Lazzaro, come aveva provato a fare Luigi Pirandello; e così sulla figura del ‘pellegrino’, tradotto in ‘forestiero’ nel titolo di una commedia napoletana dove si parlava dell’affitto dei ‘bassi’ napoletani ai pellegrini appunto. Non parliamo poi del Santo Padre, che valse a Bertold Brecht una battuta cancellata ne’ “I fucili di Madre Carrar”.
Pirandello fu attaccato anche per il suo “Cecè”, benché fosse un protetto del Fascismo: in quest’atto unico fu cancellato il riferimento a lettere e una sorta di richiesta di raccomandazione politica per i lavori al porto di Palermo che furono effettivamente eseguiti nel 1933. Con lungimiranza il Duce non volle però riferimenti diretti alla sua biografia nel teatro di propaganda. Naturalmente negli anni della dittatura autori e tematiche legati al mondo ebraico erano vietati, in particolare fu ‘tagliato’ Sam Benelli, autore molto amato a quei tempi. Anche il riferimento alla négritude venne eliminato e perfino “Otello” di Shakespeare allontanato dalle scene. Come pure fu proibita l’esaltazione del pacifico e dell’inutilità della guerra nell’opera “Leonida” di Franco Monicelli, perché la censura la riteneva offensiva per la memoria dei caduti e contraria allo spirito di una nazione. La censura raggiunse perfino le “Operette morali” di Giacomo Leopardi: il dialogo tra il sole e la luna fu tradotto dal regime dal “lei” al “voi” in segno di rispetto per l’autorità.
La donna è sempre stata uno dei bersagli preferiti dalla censura, basti pensare che nell’antichità e in alcune culture le è proibito recitare e calcare le scene, facendo travestire gli uomini nei ruoli femminili. Una donna non poteva tradire in scena, soprattutto se perdonata; e ancora al bando la parola ‘prostituta’ tanto che, non potendo rischiare di censurare Giuseppe Verdi, la “Traviata” venne tradotta in “Violetta”. Problemi affini ebbe Giulio Bragaglia, noto regista non amato dal Fascismo, con “La cortigiana” di Pietro Aretino, passata indenne nel Cinquecento ma non nel 1934; e ancora “La professione della signora Warren” di George Bernard Shaw.
Il “Peer Gynt” di Henrik Ibsen, nella riduzione di Vittorio Gassman dove venne censurata la parola ‘culo’. Mentre in “Viaggio di nozze” di Federico Fellini le ‘mutandine’ diventano un ‘reggipetto’ e viene vietato all’attore di restare sul palcoscenico in mutande nella prima notte di nozze. Una vera sforbiciata fu data a “La governante” di Vitaliano Brancati per la protagonista, una cameriera francese, bella, era omosessuale, calvinista e suicida. Per anni così Caterina, donna colta che incontra uno scrittore, non andò in scena. Stessa sorte per “Un marziano a Roma” di Ennio Flaiano. Personaggi come Dacia Maraini e Dario Fo sono finiti in carcere, per offesa allo Stato attraverso la loro arte.
In effetti, sotto mentite spoglie, ad oggi la censura è ancora vigile, basti pensare che in Italia i telegiornali vanno in differita di 5 secondi e nel 2006 l’adattamento della cantante Elisa dell’Inno di Mameli alle Olimpiadi di Vancouver fu vietato da Maurizio Gasparri perché ritenuto irrispettoso della tradizione nazionale.
In fondo già nel V secolo avanti Cristo in Grecia il teatro si era degradato o così era giudicato, tanto che il filosofo Aristotele a metà del IV secolo a.C. nella sua “Poetica”, quando parla dello scrivere corretto per il teatro, non cita mai la rappresentazione. E’ così che c’è una rottura tra pubblico da una parte, attori e registi dall’altra. La scena diventa pertanto aggressiva facendo perdere purtroppo molta della sua forza interiore. Oggi ci sarebbe di che parlare a proposito della volgarità e di quell’essere quasi sempre sopra le righe del teatro.
Nella tragedia greca i toni erano diversi perché, come si è ricordato nel dibattito di presentazione di “Teatro proibito”, Edipo entrava in scena già accecato e il suicidio non veniva mai mostrato. L’unico caso che ricordo è quello del “Filottete” che però si suicida dietro un cespuglio.
In questa scissione il teatro diventa volgare come nella commedia plautina o nel cedimento all’oscenità nel Cinquecento e Seicento, basti pensare al “Candelaio” di Giordano Bruno dove il maestro di scuola intrattiene rapporti omosessuali con i giovani allievi. Poi, come noto, il filosofo fu mandato al rogo ma per le sue teorie cosmogoniche che mettevano a repentaglio la visione teologica dell’universo. Bizzarro quanto meno.
Oggi resta diffusa l’idea che il teatro fa bene a chi lo fa ma fa male in generale come diceva del tabacco Anton Cechov.
All’incontro alla Casa dei Teatri ha partecipato anche Antonia Brancati, figlia di Vitaliano Brancati che, a parte un periodo giovanile di infatuazione per il fascismo, del quale egli stesso ricorda come di “un’ubriachezza di stupidità”, fu autore a lungo censurato.
“La governante”, della quale ho parlato poc’anzi, resta certamente nella memoria dei teatranti e fu un episodio particolarmente forte, tanto che Brancati scrisse poi un libello “Ritorno alla censura” in merito.
Lo scrittore siciliano pensava che l’avversione al teatro fosse legata già all’idea shakespeariana della rappresentazione come “arte eversiva” in quanto specchio della realtà, che fa male come la verità. Questa metafora fece dire a Pirandello che un uomo può impazzire guardandosi allo specchio e ad Eduardo De Filippo che lo ‘specchio’ è uno scostumato.
Brancati, dopo il 1934, allontanandosi dalla retorica dominante, abbandona le tragedie e i drammi epici per dedicarsi alla commedia con una vena satirica che interessò tutte le opere tra cui: “Le trombe di Eustachio” del 1942 dove prendeva in giro l’Ovra, la polizia segreta; il “Don Giovanni involontario” del 1943; il “Raffaele” di tre anni successivo; e ancora “Una donna di casa” (1950); fino alla famosa “Governante” del ’53, un anno prima della morte dell’autore.

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