lunedì 30 novembre 2015

Pier Giorgio Bellocchio: maratoneta del palcoscenico. Incontro con l’Emone dell’Antigone secondo Filippo Gili

Scritto da  Ilaria Guidantoni Sabato, 28 Novembre 2015

Cresciuto a pane e cinema, ha scelto il teatro per lavorare su se stesso e misurarsi con l’unicità della replica e del suo pubblico. Con il personaggio di Emone ha lavorato sulla lentezza, “fermando” la propria fisicità, per andare oltre. A due giorni dal debutto dello spettacolo "Antigone" per la regia di Filippo Gili abbiamo incontrato Pier Giorgio Bellocchio, giusto prima di entrare in scena, per avere uno sguardo sullo spettacolo dal palcoscenico, dalla parte dell’attore.

«Il rapporto attore-regista, soprattutto nel teatro, è un filtro personale e personalizzato: sul palcoscenico i tempi consentono un dialogo e un costante aggiustamento che non finisce con il debutto del lavoro. In particolare con Filippo lavoro da qualche anno - recentemente ho recitato nel suo Amleto e precedentemente nell’Oreste di Euripide - e per me ogni volta è un’occasione preziosa di formazione e di approfondimento soprattutto per il suo modo di riscrivere i testi che traccia l’intenzione e la direzione da dare alla propria interpretazione.»

L’Antigone per te è una prima volta?
«Sì e la riscrittura e lo sforzo di attualizzazione valgono al cento per cento per quest’opera innanzitutto per il valore e il peso storico intrinseco di un mito universale e un intreccio di relazioni che rappresentano categorie filosofiche e analitiche, oltre che letterarie, che si sono stratificate nei secoli. Il fascino è la messa in scena che diventa a sua volta un’ulteriore lettura. In questo caso la riscrittura del testo, con una modernizzazione che non lo ha snaturato o alterato ma reso, al contrario, vitale, credibile, ha concesso a me attore di essere meno enfatico e più emozionale, meno accademico e più credibile.»

Dal punto di vista del linguaggio cosa ti ha suggerito?
«Il linguaggio è stato fluidificato e ho cercato di lavorare rapidamente sull’acquisizione in termini di memoria e lentamente sulla familiarità che questa versione crea, anche se si tratta di una lingua tutt’altro che semplice e certamente non di uso quotidiano. Il lavoro dietro le quinte quando, come in questo caso, il regista spiega e offre gli strumenti per capire come arrivare al risultato, senza portare semplicemente (o anche in modo complesso) l’attore quasi “trascinandolo”, consente all’interprete l’acquisizione di un patrimonio di metodo che si stratifica nella propria esperienza.»

L'intervista integrale su Saltinaria.it

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