lunedì 30 marzo 2015

L’Amleto di Filippo Gili, un viaggio verso la regia…e ritorno

 Ilaria Guidantoni, 27 Marzo 2015

Con l’occasione del debutto dell’"Amleto” a Montalto di Castro, nel teatro che fa parte del circuito dei teatri regionali, abbiamo incontrato nuovamente il regista Filippo Gili per un viaggio dietro le quinte e nei laboratori di un artista. «E’ un progetto che nasce con Daniele Pecci. Quando Daniele mi ha chiesto se volevo curare la regia di un Amleto con lui protagonista, è stato come ritrovarsi un ombrello sotto la pioggia. Era quello che attendevo. Ed è quello che abbiamo cercato di fare. Mettere un ombrello sotto le infinite chance di una lettura di un testo infinito. Un ombrello che copra una sola parte di mondo, il palcoscenico della rappresentazione, ma spoglio di letture forzate, unicamente teso al gioco di analizzare perché, all’alba del ‘600, nacque un uomo che vide il mondo uscire dai suoi binari.»


Compagnia Stabile del Molise presenta
AMLETO
di William Shakespeare
con Daniele Pecci
regia e adattamento di Filippo Gili
con Pier Giorgio Bellocchio, Massimiliano Benvenuto, Silvia Benvenuto, Ermanno De Biagi, Pierpaolo De Mejo, Vincenzo De Michele, Pietro Faiella, Filippo Gili, Arcangelo Iannace, Liliana Massari, Daniele Pecci, Omar Sandrini, Antonio Serrano
scene Francesco Ghisu
costumi Daria Calvelli
disegno luci Giuseppe Filipponio
assistenti regia Ludovica Apollonj Ghetti, Francesca Bellucci

Come si arriva a fare il regista, con un inizio attoriale? Qual è il ruolo della regia e il peso o l’eccesso del burattinaio nel teatro e nel cinema? Queste alcune domande nel corso di una conversazione per capire come la visione della regia di Gili lo abbia portato a riscrivere il testo classico, tra i più rappresentati insieme all’"Edipo Re” e quale sia il suo rapporto con gli attori; nondimeno un’occasione per riflettere sul rapporto tra le diverse figure sul palcoscenico nel teatro che cambia, anche all’indomani della scomparsa di un grande nome quale quello di Luca Ronconi con il quale Gili ha lavorato. In questo cammino a tappe mi prometto di assistere alle prove di uno spettacolo per assaporare il senso del cantiere fino a rileggere la rappresentazione guardandola da dietro le quinte piuttosto che dal lato del pubblico perché in fondo anche quest’ultimo fa parte a tutti gli effetti della messa in scena.

Nato attore, ha incontrato la scrittura drammaturgica, per poi avvicinarsi alla regia. Un percorso graduale e non sostitutivo ed è in questa convivenza, mi anticipa Filippo, che sembra aver trovato la sua strada. Andiamo per gradi. «Lo spostamento sulla regia - mi ha confidato - è molto spesso un atto “isterico” che nasce da un complesso attoriale quando il cammino teatrale inizia con l’interpretazione e per una o più ragioni non risulta appagante. La regia conferisce un senso di potere, come quello del burattinaio, in parte conseguenza di un peccato originale del teatro moderno. A teatro, in effetti - diversamente da quanto avviene nel cinema - il punto di riferimento imprescindibile è rappresentato dagli attori e, in secondo luogo dal testo, anche se la regia è il filo che lega gli elementi, caratterizzandoli e dando unità».

Per te il testo mi sembra fondamentale, probabilmente anche perché sei autore.
«Credo che il passaggio alla scrittura teatrale abbia temperato possibili fughe in qualche modo deliranti. E’ il testo l’ancoraggio al quale fanno riferimento sia il regista sia gli attori e che consente la ripetitività nel tempo sebbene con infinite possibili varianti. Tornando alle origini del teatro, viene in luce la nascita da meccanismi liturgici che, messi per iscritto, possono essere ripetibili.»

Qual è la malattia del regista allora?
«La lacerazione tra essere la rappresentazione del potere senza in realtà esercitarlo se non in forme coercitive che purtroppo, diffuse, pesano sugli attori, ingabbiandone la creatività. Essa nasce a sua volta da un complesso di superiorità e inferiorità ad un tempo.»

L'intervista integrale su Saltinaria.it

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