Ilaria Guidantoni, 27 Marzo 2015
Con l’occasione del debutto dell’"Amleto” a Montalto di Castro, nel teatro che fa parte del circuito dei teatri regionali, abbiamo incontrato nuovamente il regista Filippo Gili per un viaggio dietro le quinte e nei laboratori di un artista. «E’ un progetto che nasce con Daniele Pecci. Quando Daniele mi ha chiesto se volevo curare la regia di un Amleto con lui protagonista, è stato come ritrovarsi un ombrello sotto la pioggia. Era quello che attendevo. Ed è quello che abbiamo cercato di fare. Mettere un ombrello sotto le infinite chance di una lettura di un testo infinito. Un ombrello che copra una sola parte di mondo, il palcoscenico della rappresentazione, ma spoglio di letture forzate, unicamente teso al gioco di analizzare perché, all’alba del ‘600, nacque un uomo che vide il mondo uscire dai suoi binari.»
Compagnia Stabile del Molise presenta
AMLETO
di William Shakespeare
con Daniele Pecci
regia e adattamento di Filippo Gili
con Pier Giorgio Bellocchio, Massimiliano Benvenuto, Silvia Benvenuto, Ermanno De Biagi, Pierpaolo De Mejo, Vincenzo De Michele, Pietro Faiella, Filippo Gili, Arcangelo Iannace, Liliana Massari, Daniele Pecci, Omar Sandrini, Antonio Serrano
scene Francesco Ghisu
costumi Daria Calvelli
disegno luci Giuseppe Filipponio
assistenti regia Ludovica Apollonj Ghetti, Francesca Bellucci
Come si arriva a fare il regista, con un inizio attoriale? Qual è il ruolo della regia e il peso o l’eccesso del burattinaio nel teatro e nel cinema? Queste alcune domande nel corso di una conversazione per capire come la visione della regia di Gili lo abbia portato a riscrivere il testo classico, tra i più rappresentati insieme all’"Edipo Re” e quale sia il suo rapporto con gli attori; nondimeno un’occasione per riflettere sul rapporto tra le diverse figure sul palcoscenico nel teatro che cambia, anche all’indomani della scomparsa di un grande nome quale quello di Luca Ronconi con il quale Gili ha lavorato. In questo cammino a tappe mi prometto di assistere alle prove di uno spettacolo per assaporare il senso del cantiere fino a rileggere la rappresentazione guardandola da dietro le quinte piuttosto che dal lato del pubblico perché in fondo anche quest’ultimo fa parte a tutti gli effetti della messa in scena.
Nato attore, ha incontrato la scrittura drammaturgica, per poi avvicinarsi alla regia. Un percorso graduale e non sostitutivo ed è in questa convivenza, mi anticipa Filippo, che sembra aver trovato la sua strada. Andiamo per gradi. «Lo spostamento sulla regia - mi ha confidato - è molto spesso un atto “isterico” che nasce da un complesso attoriale quando il cammino teatrale inizia con l’interpretazione e per una o più ragioni non risulta appagante. La regia conferisce un senso di potere, come quello del burattinaio, in parte conseguenza di un peccato originale del teatro moderno. A teatro, in effetti - diversamente da quanto avviene nel cinema - il punto di riferimento imprescindibile è rappresentato dagli attori e, in secondo luogo dal testo, anche se la regia è il filo che lega gli elementi, caratterizzandoli e dando unità».
Per te il testo mi sembra fondamentale, probabilmente anche perché sei autore.
«Credo che il passaggio alla scrittura teatrale abbia temperato possibili fughe in qualche modo deliranti. E’ il testo l’ancoraggio al quale fanno riferimento sia il regista sia gli attori e che consente la ripetitività nel tempo sebbene con infinite possibili varianti. Tornando alle origini del teatro, viene in luce la nascita da meccanismi liturgici che, messi per iscritto, possono essere ripetibili.»
Qual è la malattia del regista allora?
«La lacerazione tra essere la rappresentazione del potere senza in realtà esercitarlo se non in forme coercitive che purtroppo, diffuse, pesano sugli attori, ingabbiandone la creatività. Essa nasce a sua volta da un complesso di superiorità e inferiorità ad un tempo.»
L'intervista integrale su Saltinaria.it
lunedì 30 marzo 2015
“Ghadi” di Amin Dora. Festival del cinema francofono di Roma
Ilaria Guidantoni, 28 Marzo 2015
VI edizione Festival del cinema francofono
A Roma arriva il festival del cinema francofono, con una dimensione internazionale simbolica.
24-31 marzo 2015
A Roma al Centre Culturel Français Saint-Louis
Largo Toniolo, 22
La sesta edizione del Francofilm-festival del film francofono di Roma, ideato e organizzato dall’Institut français - Centre Saint-Louis è stata inaugurata con la proiezione del film Timbuktu di Abderrahmane Sissako (già recensito su queste pagine dato che l’avevo visto a Tunisi), pluripremiato ai César 2015 (7 César tra i quali miglior film e migliore regista), nominato agli Oscars, premiato al Fespaco (Burkina Faso) nonché Bayard d’Or du FIFF (Festival internazionale del film francofono di Namur - Belgio), che patrocina per la prima volta il Francofilm. Il Festival è in collaborazione con le Ambasciate e rappresentanze di paesi membri dell'Organizzazione Internazionale della Francofonia; ed è organizzato con il sostegno di Air France, IF Cinema, ed è per la prima volta patrocinato dal FIFF Festival International du Film Francophone de Namur che festeggerà la sua 30esima edizione dal 2 al 9 ottobre 2015. Tutti i film sono in versione originale e sottotitolati in italiano. L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti.
Mercoledì 25 Marzo - ore 18.30
Auditorium, largo Toniolo 22
LIBANO
Ghadi
di Amin Dora
Un piccolo film in un’ambientazione quasi teatrale con inquadrature strette, senza panoramiche. Lo sguardo del regista ci costringe a vivere la storia con il protagonista: una storia di amore familiare e soprattutto un inno al valore della paternità culturale e morale che alla fine vince sui pregiudizi di una società ottusa e pettegola. La prospettiva è singolarmente circoscritta al mondo cristiano con l’esclusione di qualsiasi contaminazione, sorprendente per chi frequenta il mondo arabo che, pur nello scontro, è certamente più contaminato dalla diversità rispetto all’Europa. Eppure, al di là di alcuni segni di riferimento iconografici che ci dicono che si è nella città cristiana, tutto è decisamente arabo. C’è una smania di autodefinizione, di recupero dell’identità e insieme di fusione. Iper-realismo non accostabile al neorealismo italiano, con qualche nota naïf e talora un indugiare su alcuni particolari di colore che lo rendono credibile come il profilo degli attori. Su tutto regna sovrana la musica che diventa una metafora: il linguaggio delle emozioni e delle passioni trionfa per efficacia.
L?articolo integrale su Saltinaria.it
VI edizione Festival del cinema francofono
A Roma arriva il festival del cinema francofono, con una dimensione internazionale simbolica.
24-31 marzo 2015
A Roma al Centre Culturel Français Saint-Louis
Largo Toniolo, 22
La sesta edizione del Francofilm-festival del film francofono di Roma, ideato e organizzato dall’Institut français - Centre Saint-Louis è stata inaugurata con la proiezione del film Timbuktu di Abderrahmane Sissako (già recensito su queste pagine dato che l’avevo visto a Tunisi), pluripremiato ai César 2015 (7 César tra i quali miglior film e migliore regista), nominato agli Oscars, premiato al Fespaco (Burkina Faso) nonché Bayard d’Or du FIFF (Festival internazionale del film francofono di Namur - Belgio), che patrocina per la prima volta il Francofilm. Il Festival è in collaborazione con le Ambasciate e rappresentanze di paesi membri dell'Organizzazione Internazionale della Francofonia; ed è organizzato con il sostegno di Air France, IF Cinema, ed è per la prima volta patrocinato dal FIFF Festival International du Film Francophone de Namur che festeggerà la sua 30esima edizione dal 2 al 9 ottobre 2015. Tutti i film sono in versione originale e sottotitolati in italiano. L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti.
Mercoledì 25 Marzo - ore 18.30
Auditorium, largo Toniolo 22
LIBANO
Ghadi
di Amin Dora
Un piccolo film in un’ambientazione quasi teatrale con inquadrature strette, senza panoramiche. Lo sguardo del regista ci costringe a vivere la storia con il protagonista: una storia di amore familiare e soprattutto un inno al valore della paternità culturale e morale che alla fine vince sui pregiudizi di una società ottusa e pettegola. La prospettiva è singolarmente circoscritta al mondo cristiano con l’esclusione di qualsiasi contaminazione, sorprendente per chi frequenta il mondo arabo che, pur nello scontro, è certamente più contaminato dalla diversità rispetto all’Europa. Eppure, al di là di alcuni segni di riferimento iconografici che ci dicono che si è nella città cristiana, tutto è decisamente arabo. C’è una smania di autodefinizione, di recupero dell’identità e insieme di fusione. Iper-realismo non accostabile al neorealismo italiano, con qualche nota naïf e talora un indugiare su alcuni particolari di colore che lo rendono credibile come il profilo degli attori. Su tutto regna sovrana la musica che diventa una metafora: il linguaggio delle emozioni e delle passioni trionfa per efficacia.
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martedì 24 marzo 2015
Carmen - Teatro Argentina (Roma)
Ilaria Guidantoni, 19 Marzo 2015
Dal 18 marzo al 19 aprile. Un esperimento ardito e rischioso che Martone conduce con mano esperta, osando. La trascrizione in chiave napoletana risulta facilmente naturale, sia in termini di attualizzazione che di contestualizzazione e di credibilità. Funzionano indubbiamente la suggestione musicale, ben riuscita, e l’interpretazione. Interessante la rilettura della figura della Carmen con l’inserimento della cecità. Qualche concessione di troppo agli aspetti dello spettacolo napoletano, del teatro nel teatro.
CARMEN
di Enzo Moscato
adattamento e regia Mario Martone
direzione musicale Mario Tronco
con Iaia Forte e Roberto De Francesco
e con Ernesto Mahieux, Giovanni Ludeno, Anna Redi, Francesco Di Leva, Houcine Ataa, Raul Scebba, Viviana Cangiano, Kyung Mi Lee
arrangiamento musicale Mario Tronco e Leandro Piccioni
musiche ispirate alla Carmen di Georges Bizet
esecuzione dal vivo Orchestra di Piazza Vittorio
(in ordine alfabetico): Emanuele Bultrini, Peppe D'Argenzio, Duilio Galioto, Kyung Mi Lee, Ernesto Lopez, Omar Lopez, Pino Pecorelli, Pap Yeri Samb, Raul Scebba, Marian Serban, Ion Stanescu
scene Sergio Tramonti - costumi Ursula Patzak - luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper - coreografie Anna Redi
aiuto regia Raffaele Di Florio - assistente scenografa Sandra Müller
Coproduzione Teatro di Roma e Fondazione del Teatro Stabile di Torino
In scena una Carmen bionda, napoletana, attualizzata. Apprezzabile la sintesi, che rende incisiva la vicenda ben nota, condensandola in 74 minuti dal ritmo incalzante che lasciano spazio a qualche momento di struggente malinconia e di riflessione. Dal 18 marzo al 19 aprile al Teatro Argentina di Roma va in scena Carmen di Enzo Moscato, con l’adattamento e la regia di Mario Martone e la direzione musicale di Mario Tronco. Interpreti principali Iaia Forte (nel ruolo di Carmen) e Roberto De Francesco (nel ruolo di Cose’). Con loro in scena: Ernesto Mahieux, Giovanni Ludeno, Anna Redi, Francesco Di Leva, Houcine Ataa, Raul Scebba, Viviana Cangiano e Kyung Mi Lee. L’arrangiamento musicale è di Mario Tronco e Leandro Piccioni, le musiche sono ispirate alla Carmen di Georges Bizet, con l’esecuzione dal vivo dell’Orchestra di Piazza Vittorio, pimpante e pronta come d’abitudine alla contaminazione, un gioco che con Carmen funziona molto bene e senza forzature.
Una versione contaminata anche nella forma della rappresentazione, a metà tra la prosa, lo spettacolo musicale e l’opera lirica dalla quale trae ispirazione. La mano sapiente di Martone può permettersi di scommettere su un tale esperimento, al di là del gusto personale.
La recensione integrale su Saltinaria.it
Dal 18 marzo al 19 aprile. Un esperimento ardito e rischioso che Martone conduce con mano esperta, osando. La trascrizione in chiave napoletana risulta facilmente naturale, sia in termini di attualizzazione che di contestualizzazione e di credibilità. Funzionano indubbiamente la suggestione musicale, ben riuscita, e l’interpretazione. Interessante la rilettura della figura della Carmen con l’inserimento della cecità. Qualche concessione di troppo agli aspetti dello spettacolo napoletano, del teatro nel teatro.
CARMEN
di Enzo Moscato
adattamento e regia Mario Martone
direzione musicale Mario Tronco
con Iaia Forte e Roberto De Francesco
e con Ernesto Mahieux, Giovanni Ludeno, Anna Redi, Francesco Di Leva, Houcine Ataa, Raul Scebba, Viviana Cangiano, Kyung Mi Lee
arrangiamento musicale Mario Tronco e Leandro Piccioni
musiche ispirate alla Carmen di Georges Bizet
esecuzione dal vivo Orchestra di Piazza Vittorio
(in ordine alfabetico): Emanuele Bultrini, Peppe D'Argenzio, Duilio Galioto, Kyung Mi Lee, Ernesto Lopez, Omar Lopez, Pino Pecorelli, Pap Yeri Samb, Raul Scebba, Marian Serban, Ion Stanescu
scene Sergio Tramonti - costumi Ursula Patzak - luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper - coreografie Anna Redi
aiuto regia Raffaele Di Florio - assistente scenografa Sandra Müller
Coproduzione Teatro di Roma e Fondazione del Teatro Stabile di Torino
In scena una Carmen bionda, napoletana, attualizzata. Apprezzabile la sintesi, che rende incisiva la vicenda ben nota, condensandola in 74 minuti dal ritmo incalzante che lasciano spazio a qualche momento di struggente malinconia e di riflessione. Dal 18 marzo al 19 aprile al Teatro Argentina di Roma va in scena Carmen di Enzo Moscato, con l’adattamento e la regia di Mario Martone e la direzione musicale di Mario Tronco. Interpreti principali Iaia Forte (nel ruolo di Carmen) e Roberto De Francesco (nel ruolo di Cose’). Con loro in scena: Ernesto Mahieux, Giovanni Ludeno, Anna Redi, Francesco Di Leva, Houcine Ataa, Raul Scebba, Viviana Cangiano e Kyung Mi Lee. L’arrangiamento musicale è di Mario Tronco e Leandro Piccioni, le musiche sono ispirate alla Carmen di Georges Bizet, con l’esecuzione dal vivo dell’Orchestra di Piazza Vittorio, pimpante e pronta come d’abitudine alla contaminazione, un gioco che con Carmen funziona molto bene e senza forzature.
Una versione contaminata anche nella forma della rappresentazione, a metà tra la prosa, lo spettacolo musicale e l’opera lirica dalla quale trae ispirazione. La mano sapiente di Martone può permettersi di scommettere su un tale esperimento, al di là del gusto personale.
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mercoledì 18 marzo 2015
"Armenia. Il popolo dell’arca". Complesso del Vittoriano, Roma
Ilaria Guidantoni, 15 Marzo 2015
In occasione dei 100 anni dal brutale genocidio, dal 6 marzo al 3 maggio 2015 al Vittoriano la cultura armena si mette in mostra.
Una piccola mostra per dare un assaggio di un grande popolo dimenticato anche nel dolore. Pochi pezzi preziosi e forse il bisogno di una ricostruzione, non solo storica, quanto di ambientazione.
Gli anniversari e le ricorrenze non restituiscono la totalità, ma sono una scusa e uno stimolo per portare alla luce un argomento, un personaggio e, in questo caso, un popolo, quello armeno. Una cultura ricca e un perno, quello cristiano, intorno al quale ha ruotato la sua identità per molto tempo, dopo la diaspora. Nel centenario di un genocidio quasi misconosciuto una mostra apre le porte su questa civiltà.
Con l’obiettivo di coinvolgere il pubblico italiano e internazionale in una suggestiva esperienza di esplorazione della ricca cultura armena, la mostra “Armenia. Il popolo dell’Arca” è stata allestita dal 6 marzo al 3 maggio nel Salone Centrale del Complesso del Vittoriano in occasione del Centenario della commemorazione del Genocidio armeno ed è promossa dal Ministero della Cultura armeno, dall’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia e dall’Ambasciata della Repubblica d’Armenia presso la Santa Sede e SMOM, in collaborazione con la Congregazione Armena Mechitarista.
L’esposizione si presenta al pubblico come un lungo viaggio a ritroso nei contributi, nelle contaminazioni e nel patrimonio di una popolazione sfregiata dall’oblio.
Se narrare la storia di una qualsiasi popolazione appare come un progetto assai complesso, raccontare il destino, la cultura e il coraggio del popolo armeno pare un proposito nettamente più arduo: con quest’idea l’esposizione Armenia – Il popolo dell’Arca si pone come obiettivo quello di ripercorrere i secoli che hanno portato alla nascita, allo sviluppo e al triste destino la popolazione del Monte Ararat e della vicenda dell’Arca di Noè.
La recensione integrale su Saltinaria.it
In occasione dei 100 anni dal brutale genocidio, dal 6 marzo al 3 maggio 2015 al Vittoriano la cultura armena si mette in mostra.
Una piccola mostra per dare un assaggio di un grande popolo dimenticato anche nel dolore. Pochi pezzi preziosi e forse il bisogno di una ricostruzione, non solo storica, quanto di ambientazione.
Gli anniversari e le ricorrenze non restituiscono la totalità, ma sono una scusa e uno stimolo per portare alla luce un argomento, un personaggio e, in questo caso, un popolo, quello armeno. Una cultura ricca e un perno, quello cristiano, intorno al quale ha ruotato la sua identità per molto tempo, dopo la diaspora. Nel centenario di un genocidio quasi misconosciuto una mostra apre le porte su questa civiltà.
Con l’obiettivo di coinvolgere il pubblico italiano e internazionale in una suggestiva esperienza di esplorazione della ricca cultura armena, la mostra “Armenia. Il popolo dell’Arca” è stata allestita dal 6 marzo al 3 maggio nel Salone Centrale del Complesso del Vittoriano in occasione del Centenario della commemorazione del Genocidio armeno ed è promossa dal Ministero della Cultura armeno, dall’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia e dall’Ambasciata della Repubblica d’Armenia presso la Santa Sede e SMOM, in collaborazione con la Congregazione Armena Mechitarista.
L’esposizione si presenta al pubblico come un lungo viaggio a ritroso nei contributi, nelle contaminazioni e nel patrimonio di una popolazione sfregiata dall’oblio.
Se narrare la storia di una qualsiasi popolazione appare come un progetto assai complesso, raccontare il destino, la cultura e il coraggio del popolo armeno pare un proposito nettamente più arduo: con quest’idea l’esposizione Armenia – Il popolo dell’Arca si pone come obiettivo quello di ripercorrere i secoli che hanno portato alla nascita, allo sviluppo e al triste destino la popolazione del Monte Ararat e della vicenda dell’Arca di Noè.
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martedì 17 marzo 2015
Parole ad un caffè…con Filippo Gili: raccontare, sentire, testimoniare, senza la pretesa di spiegare né risolvere
Ilaria Guidantoni, 14 Marzo 2015
Il primo incontro è stato sul palcoscenico del Teatro Elfo Puccini a Milano per lo spettacolo “Prima di andar via” del quale è autore e interprete principale, un ruolo che mi è parso cucito addosso al personaggio tanto che alla fine non riuscivo a distinguere l’attore dal protagonista della vicenda. Soprattutto il testo mi ha colpita, l’originalità di affrontare il tema dell’”addio tra vivi”, della morte scelta - ma non si tratta banalmente di suicidio - e l’uso della parola. Ascoltare Filippo Gili è ritrovare la parola, la sua carnalità, la voce come verso umano, l’originario pensare dell’uomo che sussurra, grida, declama e nella lingua trova una visione del pensare.
Item fulltext
Cominciamo la nostra conversazione frugando nei nostri cammini: il plurale è d’obbligo perché Filippo Gili ti costringe a metterti nella conversazione, senza la vanità del personaggio che si fa intervistare e aspetta le domande, né la passività discreta di chi ascolta e replica dentro un copione. Ad un certo punto non sapevo più se l’intervistata fossi io e se il testo del quale stavamo parlando fosse la nostra conversazione o uno spettacolo già compiuto.
Recuperando l’origine del nostro incontro gli ho chiesto quale sia stata la prima immagine dalla quale è nato “Prima di andar via” e poi come un autore dall’alfa all’omega, che crea il soggetto, scrive i dialoghi fino talora ad essere regista dell’opera, compia questo percorso.
«Ho un rapporto sensoriale con la nascita di “Prima di andar via”, ricordo esattamente dov’ero quando mi venne in mente di un uomo che comunicava alla famiglia di volersi suicidare. La prima immagine perciò non è creativa, ma direi ambientale. Il resto, forte di una sensazione felice, è stato semplice. Mi sono messo direttamente a scrivere la sceneggiatura. Scrivere teatro o cinema per me non è nient’altro che immaginare quello che vedo e trascriverlo. La definirei una precisa immaginazione. E nel caso di “Prima di andar via” - oltre a ragioni psicanalitiche che potrei solo intuire (amore e vendetta fanno il paio come Castore e Polluce) - ho voluto creare il pretesto per aggiornare un’esperienza perduta, quella dell’addio fra vivi.»
Da quell'idea nasce un seguito. Cosa c'era in sospeso?
«L’energia petrolifera della morte e la sua connessione con l’energia atomica delle relazioni familiari. Se Edipo Re e Amleto sono le tragedie ancora più rappresentate è perché la loro ossatura si fonda sulla struttura di un dramma familiare. In sospeso c’è il bisogno di mettere in rilievo la radice caotica - in senso etimologico - della famiglia, la sua demonicità. “Dall’altro di una fredda torre” scaraventa in un Erebo esplosivo la mente di due fratelli costretti a scegliere se salvare la vita a un padre o a una madre. La mia spinta nasce dal dimostrare che l’archetipo, toccando il postmoderno, piega e disarticola le strutture foderate delle idee e del linguaggio. Buca l’organizzazione collettivista del rapporto con la realtà facendo indietreggiare l’Io ben prima del dolore, ma nel Kaos che quel dolore l’ha prodotto.»
L'intervista integrale su Saltinaria.it
Il primo incontro è stato sul palcoscenico del Teatro Elfo Puccini a Milano per lo spettacolo “Prima di andar via” del quale è autore e interprete principale, un ruolo che mi è parso cucito addosso al personaggio tanto che alla fine non riuscivo a distinguere l’attore dal protagonista della vicenda. Soprattutto il testo mi ha colpita, l’originalità di affrontare il tema dell’”addio tra vivi”, della morte scelta - ma non si tratta banalmente di suicidio - e l’uso della parola. Ascoltare Filippo Gili è ritrovare la parola, la sua carnalità, la voce come verso umano, l’originario pensare dell’uomo che sussurra, grida, declama e nella lingua trova una visione del pensare.
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Cominciamo la nostra conversazione frugando nei nostri cammini: il plurale è d’obbligo perché Filippo Gili ti costringe a metterti nella conversazione, senza la vanità del personaggio che si fa intervistare e aspetta le domande, né la passività discreta di chi ascolta e replica dentro un copione. Ad un certo punto non sapevo più se l’intervistata fossi io e se il testo del quale stavamo parlando fosse la nostra conversazione o uno spettacolo già compiuto.
Recuperando l’origine del nostro incontro gli ho chiesto quale sia stata la prima immagine dalla quale è nato “Prima di andar via” e poi come un autore dall’alfa all’omega, che crea il soggetto, scrive i dialoghi fino talora ad essere regista dell’opera, compia questo percorso.
«Ho un rapporto sensoriale con la nascita di “Prima di andar via”, ricordo esattamente dov’ero quando mi venne in mente di un uomo che comunicava alla famiglia di volersi suicidare. La prima immagine perciò non è creativa, ma direi ambientale. Il resto, forte di una sensazione felice, è stato semplice. Mi sono messo direttamente a scrivere la sceneggiatura. Scrivere teatro o cinema per me non è nient’altro che immaginare quello che vedo e trascriverlo. La definirei una precisa immaginazione. E nel caso di “Prima di andar via” - oltre a ragioni psicanalitiche che potrei solo intuire (amore e vendetta fanno il paio come Castore e Polluce) - ho voluto creare il pretesto per aggiornare un’esperienza perduta, quella dell’addio fra vivi.»
Da quell'idea nasce un seguito. Cosa c'era in sospeso?
«L’energia petrolifera della morte e la sua connessione con l’energia atomica delle relazioni familiari. Se Edipo Re e Amleto sono le tragedie ancora più rappresentate è perché la loro ossatura si fonda sulla struttura di un dramma familiare. In sospeso c’è il bisogno di mettere in rilievo la radice caotica - in senso etimologico - della famiglia, la sua demonicità. “Dall’altro di una fredda torre” scaraventa in un Erebo esplosivo la mente di due fratelli costretti a scegliere se salvare la vita a un padre o a una madre. La mia spinta nasce dal dimostrare che l’archetipo, toccando il postmoderno, piega e disarticola le strutture foderate delle idee e del linguaggio. Buca l’organizzazione collettivista del rapporto con la realtà facendo indietreggiare l’Io ben prima del dolore, ma nel Kaos che quel dolore l’ha prodotto.»
L'intervista integrale su Saltinaria.it
giovedì 12 marzo 2015
Clandestini - Teatro de' Servi (Roma)
Ilaria Guidantoni, 11 Marzo 2015
Dal 10 al 29 marzo. Una commedia dolce-amara, più amara che dolce, con qualche nota agra come la vita dei clandestini, quelli del domani e a testa in giù. In un possibile 2031, l’autore immagina siano gli italiani a sbarcare nell’Africa sub-sahariana in cerca di fortuna. Una comicità sincera, un grande affiatamento di squadra che sembra divertire autenticamente gli attori prima che il pubblico. Allestimento e musiche indovinati.
Produzioni La Bilancia presenta
CLANDESTINI
di Gianni Clementi
regia Vanessa Gasbarri
con Marco Cavallaro, Andrea Perrozzi, Antonia Renzella, Alessandro Salvatori
scene Katia Titolo
"Clandestini" è uno spaccato esilarante e per certi versi grottesco di vita quotidiana immaginato in un futuro non troppo lontano - il 2031 dichiarato ad un certo momento quasi per inciso - in cui l'autore, Gianni Clementi, ipotizza un ribaltamento degli equilibri economici mondiali. E’ il mondo cosiddetto occidentale a sbarcare clandestinamente sulle coste di un paese africano per cercar quella fortuna ormai sperperata in patria: in questo caso una colonia di italiani arriva in un paese che potrebbe essere l’Angola. La partenza è giornalistica, con titoli e ritagli di giornali, annunci da un telegiornale, sul grande schermo: c’è un angolo del globo dove ancora le riserve di petrolio garantiscono un futuro, un progetto, la possibilità di sognare. Le promesse spesso però si rivelano illusioni.
Il sogno è quello di una terra promessa come la celebre canzone di Eros Ramazzotti, mito di uno dei protagonisti, una seconda possibilità che è l’altrove, una patria scelta, del cuore: un viaggio metaforico. Per molti, in crisi, l’unica opportunità sembra essere lontano da casa, ricominciando tutto, ma azzerando la vita precedente. Non resta che il bagaglio di ricordi, custodito gelosamente e i vizi che ci inseguono malgrado la nostra volontà.
Il testo di Clementi, con accenti sarcastici, traccia un autoritratto impietoso del nostro essere emigranti, che ci fa riflettere. Sulla scena, in un allestimento articolato e gradevole, l’interno di un ristorante, la pizzeria Bell’Italia - decisamente fuori contesto - fa da cornice alle vicende di quattro personaggi al limite del parossistico. La situazione è pressoché surreale e si svela a poco a poco perché ci vuole un po’ di tempo per capire che le categorie con quali abbiamo a che fare abitualmente si sono ribaltate.
La recensione integrale su Saltinaria.it
Dal 10 al 29 marzo. Una commedia dolce-amara, più amara che dolce, con qualche nota agra come la vita dei clandestini, quelli del domani e a testa in giù. In un possibile 2031, l’autore immagina siano gli italiani a sbarcare nell’Africa sub-sahariana in cerca di fortuna. Una comicità sincera, un grande affiatamento di squadra che sembra divertire autenticamente gli attori prima che il pubblico. Allestimento e musiche indovinati.
Produzioni La Bilancia presenta
CLANDESTINI
di Gianni Clementi
regia Vanessa Gasbarri
con Marco Cavallaro, Andrea Perrozzi, Antonia Renzella, Alessandro Salvatori
scene Katia Titolo
"Clandestini" è uno spaccato esilarante e per certi versi grottesco di vita quotidiana immaginato in un futuro non troppo lontano - il 2031 dichiarato ad un certo momento quasi per inciso - in cui l'autore, Gianni Clementi, ipotizza un ribaltamento degli equilibri economici mondiali. E’ il mondo cosiddetto occidentale a sbarcare clandestinamente sulle coste di un paese africano per cercar quella fortuna ormai sperperata in patria: in questo caso una colonia di italiani arriva in un paese che potrebbe essere l’Angola. La partenza è giornalistica, con titoli e ritagli di giornali, annunci da un telegiornale, sul grande schermo: c’è un angolo del globo dove ancora le riserve di petrolio garantiscono un futuro, un progetto, la possibilità di sognare. Le promesse spesso però si rivelano illusioni.
Il sogno è quello di una terra promessa come la celebre canzone di Eros Ramazzotti, mito di uno dei protagonisti, una seconda possibilità che è l’altrove, una patria scelta, del cuore: un viaggio metaforico. Per molti, in crisi, l’unica opportunità sembra essere lontano da casa, ricominciando tutto, ma azzerando la vita precedente. Non resta che il bagaglio di ricordi, custodito gelosamente e i vizi che ci inseguono malgrado la nostra volontà.
Il testo di Clementi, con accenti sarcastici, traccia un autoritratto impietoso del nostro essere emigranti, che ci fa riflettere. Sulla scena, in un allestimento articolato e gradevole, l’interno di un ristorante, la pizzeria Bell’Italia - decisamente fuori contesto - fa da cornice alle vicende di quattro personaggi al limite del parossistico. La situazione è pressoché surreale e si svela a poco a poco perché ci vuole un po’ di tempo per capire che le categorie con quali abbiamo a che fare abitualmente si sono ribaltate.
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mercoledì 11 marzo 2015
Le rotaie della memoria - Teatro Filodrammatici (Milano)
Ilaria Guidantoni, 08 Marzo 2015
Lunedì 2 marzo è andato in scena "Le rotaie della memoria", il commovente spettacolo della compagnia Eco di fondo vincitrice (in ex-aequo con "A qualcuno piace…Fred!" di Epos Teatro) della prima edizione del Premio Riccardo Pradella, riconoscimento istituito dall’Accademia dei Filodrammatici per ricordare una delle figure portanti della sua storia: Riccardo Pradella, attore e regista, promotore della riapertura del Teatro Filodrammatici negli anni ’70 e, per moltissimi anni, tutor del corso di recitazione della scuola per attori, scomparso nell’agosto del 2012. Il Premio, rivolto alle giovani compagnie, composte in maggioranza da ex allievi dell’Accademia dei Filodrammatici, dà la possibilità ai vincitori di mettere in scena il proprio spettacolo all’interno del cartellone del Teatro Filodrammatici. La compagnia Eco di fondo con lo spettacolo "Le rotaie della memoria" ha vinto il Premio Pradella grazie alla sua sensibilità nel confrontarsi con il contemporaneo e nello svolgere una continuativa ricerca su temi etico-sociali.
Produzione Eco di Fondo presenta
LE ROTAIE DELLA MEMORIA
di Giulia Viana e Giacomo Ferraù
regia Giacomo Ferraù
assistenti alla regia Valentina Mandruzzato e Riccardo Buffonini
con Giulia Viana
scene e luci Giuliano Almerighi
Primo classificato (ex-aequo) Premio Riccardo Pradella prima edizione
Sono i binari della memoria che nutrono il presente e danno un senso al futuro: il dovere e il bisogno insieme di ricordare chi ha contribuito a creare una democrazia, anche se imperfetta, in questo Paese. A quasi un secolo dalla prima guerra mondiale questo spettacolo delicato e un po’ malinconico suona un campanello, quello della coscienza collettiva, del valore del ricordo. Da lì sono iniziate la globalizzazione e l’idea di una sorta di precarietà collettiva: tutti in un momento saremmo potuti entrare in guerra con tutti. Poi l’esperienza della dittatura, la seconda guerra mondiale, il sapore amaro della sconfitta. Uno spettacolo originale perché una donna veste i panni di un uomo, di un partigiano, per raccontare nel ricordo la propria vita, di sacrifici, di dolori, di piccole e grandi punizioni, dallo stare in ginocchio sui ceci al carcere, in nome di ideali. Storie semplici di una vita paesana dura eppure ricordata come meravigliosa, perché vera e intensa. Come la recitazione di Giulia Viana, una grande prova, vissuta con tenera umiltà. Il lavoro duro di corpo, voce, interpretazione, nel segno dell’immedesimazione. Un testo e un’interpretazione poetica per raccontare la lotta per la democrazia con dolcezza, senza grida, fuori dal segno dell’ideologia. Come una storia di tutti i giorni. Una prospettiva originale.
L'articolo integrale su Saltinaria.it
Lunedì 2 marzo è andato in scena "Le rotaie della memoria", il commovente spettacolo della compagnia Eco di fondo vincitrice (in ex-aequo con "A qualcuno piace…Fred!" di Epos Teatro) della prima edizione del Premio Riccardo Pradella, riconoscimento istituito dall’Accademia dei Filodrammatici per ricordare una delle figure portanti della sua storia: Riccardo Pradella, attore e regista, promotore della riapertura del Teatro Filodrammatici negli anni ’70 e, per moltissimi anni, tutor del corso di recitazione della scuola per attori, scomparso nell’agosto del 2012. Il Premio, rivolto alle giovani compagnie, composte in maggioranza da ex allievi dell’Accademia dei Filodrammatici, dà la possibilità ai vincitori di mettere in scena il proprio spettacolo all’interno del cartellone del Teatro Filodrammatici. La compagnia Eco di fondo con lo spettacolo "Le rotaie della memoria" ha vinto il Premio Pradella grazie alla sua sensibilità nel confrontarsi con il contemporaneo e nello svolgere una continuativa ricerca su temi etico-sociali.
Produzione Eco di Fondo presenta
LE ROTAIE DELLA MEMORIA
di Giulia Viana e Giacomo Ferraù
regia Giacomo Ferraù
assistenti alla regia Valentina Mandruzzato e Riccardo Buffonini
con Giulia Viana
scene e luci Giuliano Almerighi
Primo classificato (ex-aequo) Premio Riccardo Pradella prima edizione
Sono i binari della memoria che nutrono il presente e danno un senso al futuro: il dovere e il bisogno insieme di ricordare chi ha contribuito a creare una democrazia, anche se imperfetta, in questo Paese. A quasi un secolo dalla prima guerra mondiale questo spettacolo delicato e un po’ malinconico suona un campanello, quello della coscienza collettiva, del valore del ricordo. Da lì sono iniziate la globalizzazione e l’idea di una sorta di precarietà collettiva: tutti in un momento saremmo potuti entrare in guerra con tutti. Poi l’esperienza della dittatura, la seconda guerra mondiale, il sapore amaro della sconfitta. Uno spettacolo originale perché una donna veste i panni di un uomo, di un partigiano, per raccontare nel ricordo la propria vita, di sacrifici, di dolori, di piccole e grandi punizioni, dallo stare in ginocchio sui ceci al carcere, in nome di ideali. Storie semplici di una vita paesana dura eppure ricordata come meravigliosa, perché vera e intensa. Come la recitazione di Giulia Viana, una grande prova, vissuta con tenera umiltà. Il lavoro duro di corpo, voce, interpretazione, nel segno dell’immedesimazione. Un testo e un’interpretazione poetica per raccontare la lotta per la democrazia con dolcezza, senza grida, fuori dal segno dell’ideologia. Come una storia di tutti i giorni. Una prospettiva originale.
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Matisse. Arabesque. 5 marzo – 21 giugno. Roma, Scuderie del Quirinale
Ilaria Guidantoni, 07 Marzo 2015
E’ la prospettiva originale il punto di forza della mostra, la lettura della poetica pittorica di Matisse attraverso la suggestione arabo-orientale della decorazione, arabesque come recita il sottotitolo. Interessante l’accostamento a reperti storici di ceramica turca e araba di diverse provenienze ed epoche che hanno influenzato il protagonismo del colore nel pittore francese. E ancora maschere e oggetti provenienti da un mondo “altro e lontano” come il moucharabieh di Fez, quasi tutti provenienti dal museo parigino di Quai Branly dedicato appunto alle civiltà extra-europee. Da segnalare l’attività di costumista per Daghilev che riportano ai suoi viaggi in Russia e a uno scambio che in quegli anni interessò molti artisti.
“La preziosità o gli arabeschi non sovraccaricano mai i miei disegni, perché quei preziosismi e quegli arabeschi fanno parte della mia orchestrazione del quadro.”
La révélation m'est venue d'Orient scriveva Henri Matisse nel 1947 al critico Gaston Diehl: una rivelazione che non fu uno shock improvviso ma - come testimoniano i suoi quadri e disegni - viene piuttosto da una crescente frequentazione dell'Oriente e si sviluppa nell'arco di viaggi, incontri e visite a mostre ed esposizioni.
Proposta dalle Scuderie del Quirinale, promossa dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, da Roma Capitale - Assessorato alla Cultura, Creatività, Promozione Artistica e Turismo, la mostra è organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in coproduzione con MondoMostre e catalogo a cura di Skira editore. In esposizione oltre cento opere di Matisse con alcuni capolavori assoluti - per la prima volta in Italia - dai maggiori musei del mondo: Tate, MET, MoMa, Puškin, Ermitage, Pompidou, Orangerie, Philadelphia, Washington solo per citarne alcuni.
Curata da Ester Coen, con un comitato scientifico composto da John Elderfield, Remi Labrusse e Olivier Berggruen, “Matisse. Arabesque”, vuole restituire un'idea delle suggestioni che l'Oriente ebbe nella pittura di Matisse: un Oriente che, con i suoi artifici, i suoi arabeschi, i suoi colori, suggerisce uno spazio più vasto, un vero spazio plastico e offre un nuovo respiro alle sue composizioni, liberandolo dalle costrizioni formali, dalla necessità della prospettiva e della "somiglianza" per aprire a uno spazio fatto di colori vibranti, a una nuova idea di arte decorativa fondata sull’idea di superficie pura.
La recensione integrale su Saltinaria.it
E’ la prospettiva originale il punto di forza della mostra, la lettura della poetica pittorica di Matisse attraverso la suggestione arabo-orientale della decorazione, arabesque come recita il sottotitolo. Interessante l’accostamento a reperti storici di ceramica turca e araba di diverse provenienze ed epoche che hanno influenzato il protagonismo del colore nel pittore francese. E ancora maschere e oggetti provenienti da un mondo “altro e lontano” come il moucharabieh di Fez, quasi tutti provenienti dal museo parigino di Quai Branly dedicato appunto alle civiltà extra-europee. Da segnalare l’attività di costumista per Daghilev che riportano ai suoi viaggi in Russia e a uno scambio che in quegli anni interessò molti artisti.
“La preziosità o gli arabeschi non sovraccaricano mai i miei disegni, perché quei preziosismi e quegli arabeschi fanno parte della mia orchestrazione del quadro.”
La révélation m'est venue d'Orient scriveva Henri Matisse nel 1947 al critico Gaston Diehl: una rivelazione che non fu uno shock improvviso ma - come testimoniano i suoi quadri e disegni - viene piuttosto da una crescente frequentazione dell'Oriente e si sviluppa nell'arco di viaggi, incontri e visite a mostre ed esposizioni.
Proposta dalle Scuderie del Quirinale, promossa dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, da Roma Capitale - Assessorato alla Cultura, Creatività, Promozione Artistica e Turismo, la mostra è organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in coproduzione con MondoMostre e catalogo a cura di Skira editore. In esposizione oltre cento opere di Matisse con alcuni capolavori assoluti - per la prima volta in Italia - dai maggiori musei del mondo: Tate, MET, MoMa, Puškin, Ermitage, Pompidou, Orangerie, Philadelphia, Washington solo per citarne alcuni.
Curata da Ester Coen, con un comitato scientifico composto da John Elderfield, Remi Labrusse e Olivier Berggruen, “Matisse. Arabesque”, vuole restituire un'idea delle suggestioni che l'Oriente ebbe nella pittura di Matisse: un Oriente che, con i suoi artifici, i suoi arabeschi, i suoi colori, suggerisce uno spazio più vasto, un vero spazio plastico e offre un nuovo respiro alle sue composizioni, liberandolo dalle costrizioni formali, dalla necessità della prospettiva e della "somiglianza" per aprire a uno spazio fatto di colori vibranti, a una nuova idea di arte decorativa fondata sull’idea di superficie pura.
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"National Gallery" un film di Frederick Wiseman. Al cinema l'11 marzo 2015
Ilaria Guidantoni, 07 Marzo 2015
Nexo Digital e I Wonder Pictures in collaborazione con Unipol Biografilm Collection
presentano
NATIONAL GALLERY
di Frederick Wiseman
Mercoledì 11 marzo, per un solo giorno al cinema
Trailer qui https://www.youtube.com/watch?v=-wJZ30AyoyQ&feature=youtu.be
Un film ed anche una visita virtuale, ma non solo. Da un anno un’iniziativa di diffusione della conoscenza dei principali musei del mondo si affida a registi che interpretano in modo diverso il ruolo di Cicerone virtuale. Nell’episodio dedicato alla National Gallery il regista mette in scena una riflessione sulla fruizione pubblica di un grande museo, con al centro il giudizio popolare a partire dai bambini.
L’esperimento è interessante anche se di per sé non particolarmente originale: mettere a disposizione la conoscenza dei grandi musei del mondo grazie al cinema con un intento didattico e percettivo, rendendo l’apprezzamento delle opere più fruibile della stessa visita reale per certi aspetti. Nella “National Gallery in Tour” – che l’Italia festeggia con un mese di iniziative e collaborazioni – il film Leone d’Oro di Frederick Wiseman sul grande schermo in programma mercoledì 11 marzo nei cinema italiani. Quasi tre ore di proiezione con al centro la discussione tra i curatori, il direttore Nicholas Penny, guide turistiche e figure varie sul tema del rapporto con il pubblico dalla parte del pubblico. Emerge l’importanza del dialogo con lo spettatore, l’approccio interattivo, l’attenzione ai bisogni che viene messo in luce da chi guarda il museo dall’esterno. D’altra parte, chi gestisce un museo si chiede qual è il riflesso di un’apertura maggiore dello spazio espositivo all’esterno e con un’attenzione focalizzata anche sull’espressione popolare. Il problema, molto delicato, è se si riesce a misurarne l’effetto e il gradimento e se il successo sia rappresentato dall’aumento di numeri, dal maggior accesso virtuale e a cosa debba maggiormente rispondere un museo.
Non è tanto interessante seguire il filo delle discussioni e capire l’esito quanto l’approccio di un regista di profilo rispetto alla ricchezza da mostrare e la sua scelta critica di ragionare su come arriva e viene percepita l’opera d’arte.
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Nexo Digital e I Wonder Pictures in collaborazione con Unipol Biografilm Collection
presentano
NATIONAL GALLERY
di Frederick Wiseman
Mercoledì 11 marzo, per un solo giorno al cinema
Trailer qui https://www.youtube.com/watch?v=-wJZ30AyoyQ&feature=youtu.be
Un film ed anche una visita virtuale, ma non solo. Da un anno un’iniziativa di diffusione della conoscenza dei principali musei del mondo si affida a registi che interpretano in modo diverso il ruolo di Cicerone virtuale. Nell’episodio dedicato alla National Gallery il regista mette in scena una riflessione sulla fruizione pubblica di un grande museo, con al centro il giudizio popolare a partire dai bambini.
L’esperimento è interessante anche se di per sé non particolarmente originale: mettere a disposizione la conoscenza dei grandi musei del mondo grazie al cinema con un intento didattico e percettivo, rendendo l’apprezzamento delle opere più fruibile della stessa visita reale per certi aspetti. Nella “National Gallery in Tour” – che l’Italia festeggia con un mese di iniziative e collaborazioni – il film Leone d’Oro di Frederick Wiseman sul grande schermo in programma mercoledì 11 marzo nei cinema italiani. Quasi tre ore di proiezione con al centro la discussione tra i curatori, il direttore Nicholas Penny, guide turistiche e figure varie sul tema del rapporto con il pubblico dalla parte del pubblico. Emerge l’importanza del dialogo con lo spettatore, l’approccio interattivo, l’attenzione ai bisogni che viene messo in luce da chi guarda il museo dall’esterno. D’altra parte, chi gestisce un museo si chiede qual è il riflesso di un’apertura maggiore dello spazio espositivo all’esterno e con un’attenzione focalizzata anche sull’espressione popolare. Il problema, molto delicato, è se si riesce a misurarne l’effetto e il gradimento e se il successo sia rappresentato dall’aumento di numeri, dal maggior accesso virtuale e a cosa debba maggiormente rispondere un museo.
Non è tanto interessante seguire il filo delle discussioni e capire l’esito quanto l’approccio di un regista di profilo rispetto alla ricchezza da mostrare e la sua scelta critica di ragionare su come arriva e viene percepita l’opera d’arte.
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venerdì 6 marzo 2015
FRANCESCO GAROLFI - Wild (Autoproduzione, 2015)
Josè Leaci, 01 Marzo 2015
Con "Wild", Francesco Garolfi entra ed esce dal suo fantabosco personale, accompagnando lupi, orsi e indiani coperti di pelli di bisonte, attraverso l'inverno dello Yukon immaginato.
Genere: Ambient, colonna sonora
Voto: 7.5/10
Francesco Garolfi entra ed esce dal suo fantabosco personale, accompagnando lupi, orsi e indiani coperti di pelli di bisonte, attraverso l'inverno dello Yukon immaginato. Ascoltando "Wild" sembra di passeggiare con lui tra gli alberi innevati, sui sentieri argillosi, lungo le sponde dei fiumi, tra riflessi di luce e il profumo del muschio bagnato.
Non fa sfoggio di una grande tecnica chitarristica. Forse, pur avendo le capacità del guitar hero, non ha intenzione di mostrare i muscoli, eppure in questo disco è talmente ispirato da risultare innegabilmente godibile. La sua capacità compositiva, probabilmente, è il suo grande biglietto da visita e noi non vogliamo pensare a lui esclusivamente come ad uno strumentista.
In "Wild" ascoltiamo Garolfi descrivere gli scenari de "Il richiamo della foresta" e "Zanna bianca", come componesse musiche da film, la colonna sonora di un viaggio mentale da dividere con lo scrittore Davide Sapienza, traduttore dei libri di Jack London che, con Garolfi, ha ideato un progetto teatrale intitolato "Il richiamo di Zanna Bianca".
La recensione integrale su Saltinaria.it
Con "Wild", Francesco Garolfi entra ed esce dal suo fantabosco personale, accompagnando lupi, orsi e indiani coperti di pelli di bisonte, attraverso l'inverno dello Yukon immaginato.
Genere: Ambient, colonna sonora
Voto: 7.5/10
Francesco Garolfi entra ed esce dal suo fantabosco personale, accompagnando lupi, orsi e indiani coperti di pelli di bisonte, attraverso l'inverno dello Yukon immaginato. Ascoltando "Wild" sembra di passeggiare con lui tra gli alberi innevati, sui sentieri argillosi, lungo le sponde dei fiumi, tra riflessi di luce e il profumo del muschio bagnato.
Non fa sfoggio di una grande tecnica chitarristica. Forse, pur avendo le capacità del guitar hero, non ha intenzione di mostrare i muscoli, eppure in questo disco è talmente ispirato da risultare innegabilmente godibile. La sua capacità compositiva, probabilmente, è il suo grande biglietto da visita e noi non vogliamo pensare a lui esclusivamente come ad uno strumentista.
In "Wild" ascoltiamo Garolfi descrivere gli scenari de "Il richiamo della foresta" e "Zanna bianca", come componesse musiche da film, la colonna sonora di un viaggio mentale da dividere con lo scrittore Davide Sapienza, traduttore dei libri di Jack London che, con Garolfi, ha ideato un progetto teatrale intitolato "Il richiamo di Zanna Bianca".
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“Medardo Rosso. La Luce e la materia”. GAM – Galleria d’Arte Moderna di Milano
Ilaria Guidantoni, 03 Marzo 2015
Dal 18 Febbraio 2015 al 30 Maggio 2015
Curatori Paola Zatti in collaborazione con il Museo Rosso di Barzio
Una retrospettiva di alto valore, per la natura delle opere e per l’aspetto simbolico: omaggio all’artista torinese, con un’esperienza parigina, milanese di adozione. Scultore e fotografo, ribelle all’accademia, precursore del superamento delle barriere tra le arti, di grande modernità, infaticabile sperimentatore di tecniche.
La Galleria d’Arte Moderna di Milano, in collaborazione con il Museo Rosso di Barzio, dedica una grande retrospettiva a Medardo Rosso con un’ampia selezione delle sue opere per dar conto della sua intera vicenda artistica a 35 anni dall’ultima monografica che Milano ha dedicato allo scultore torinese, ma milanese d’adozione, unico artista italiano della sua epoca ad avere un respiro europeo. La mostra è l’occasione per riscoprire un artista troppo a lungo dimenticato. Sebbene a Milano si sia formato all’ Accademia di Brera – tra il 1882 e il 1883 – e qui sia ritornato dopo il periodo parigino, è dal 1979 (quando la Permanente gli dedicò una grande mostra) che la città non lo ospita più. Fino al 1914 i musei pubblici sembravano non accorgersi di lui eppure è stato un grande innovatore e precursore, lontano da ogni etichetta.
L’esposizione, a cura di Paola Zatti, conservatore responsabile della Galleria d’Arte Moderna di Milano, ha un percorso tematico – con 73 pezzi, circa 30 sculture e 10 fotografie - che prenderà avvio con quattro delle più significative opere degli esordi di Rosso, tutte realizzate a Milano e presentate in diverse versioni: il “Birichino”, prima opera comparsa nelle sale di Brera nel 1882; il “Sagrestano”, soggetto comico e quasi spietato del 1883, la “Ruffiana”, dello stesso anno, rappresentazione caricaturale, nel solco della tradizione verista; e “Portinaria”, 1890-1905 dal Museo di Belle Arti di Budapest.
La seconda sezione, La materia, usi e sottrazioni, intende restituire, attraverso diverse versioni di due soli soggetti, rispettivamente la “Rieuse” e “Ecce puer” - il primo abbraccia un arco cronologico ampio, dal 1890 agli anni ’10 del Novecento, il secondo tra gli ultimi affrontati nel 1906 - due temi fondamentali: la sperimentazione materica (l’utilizzo personalissimo e inconfondibile, di gesso, bronzo e cera) e il processo creativo dell’artista che procede, nel suo percorso tormentato, per “sottrazioni”, fino al raggiungimento dell’esito desiderato.
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Dal 18 Febbraio 2015 al 30 Maggio 2015
Curatori Paola Zatti in collaborazione con il Museo Rosso di Barzio
Una retrospettiva di alto valore, per la natura delle opere e per l’aspetto simbolico: omaggio all’artista torinese, con un’esperienza parigina, milanese di adozione. Scultore e fotografo, ribelle all’accademia, precursore del superamento delle barriere tra le arti, di grande modernità, infaticabile sperimentatore di tecniche.
La Galleria d’Arte Moderna di Milano, in collaborazione con il Museo Rosso di Barzio, dedica una grande retrospettiva a Medardo Rosso con un’ampia selezione delle sue opere per dar conto della sua intera vicenda artistica a 35 anni dall’ultima monografica che Milano ha dedicato allo scultore torinese, ma milanese d’adozione, unico artista italiano della sua epoca ad avere un respiro europeo. La mostra è l’occasione per riscoprire un artista troppo a lungo dimenticato. Sebbene a Milano si sia formato all’ Accademia di Brera – tra il 1882 e il 1883 – e qui sia ritornato dopo il periodo parigino, è dal 1979 (quando la Permanente gli dedicò una grande mostra) che la città non lo ospita più. Fino al 1914 i musei pubblici sembravano non accorgersi di lui eppure è stato un grande innovatore e precursore, lontano da ogni etichetta.
L’esposizione, a cura di Paola Zatti, conservatore responsabile della Galleria d’Arte Moderna di Milano, ha un percorso tematico – con 73 pezzi, circa 30 sculture e 10 fotografie - che prenderà avvio con quattro delle più significative opere degli esordi di Rosso, tutte realizzate a Milano e presentate in diverse versioni: il “Birichino”, prima opera comparsa nelle sale di Brera nel 1882; il “Sagrestano”, soggetto comico e quasi spietato del 1883, la “Ruffiana”, dello stesso anno, rappresentazione caricaturale, nel solco della tradizione verista; e “Portinaria”, 1890-1905 dal Museo di Belle Arti di Budapest.
La seconda sezione, La materia, usi e sottrazioni, intende restituire, attraverso diverse versioni di due soli soggetti, rispettivamente la “Rieuse” e “Ecce puer” - il primo abbraccia un arco cronologico ampio, dal 1890 agli anni ’10 del Novecento, il secondo tra gli ultimi affrontati nel 1906 - due temi fondamentali: la sperimentazione materica (l’utilizzo personalissimo e inconfondibile, di gesso, bronzo e cera) e il processo creativo dell’artista che procede, nel suo percorso tormentato, per “sottrazioni”, fino al raggiungimento dell’esito desiderato.
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lunedì 2 marzo 2015
Giovanni CAMPUS - Dal 28 febbraio al 7 aprile Museo Piaggio Pontedera
Giovanni CAMPUS
Venerdì 27 febbraio - Ore 18,30 - Museo Piaggio
Inaugurazione della mostra antologica di Giovanni Campus presso il Museo Piaggio di Pontedera
La figura di Giovanni Campus (Olbia, 1929) è una delle più singolari e autonome nel campo della scultura italiana, che con questa mostra celebra oltre mezzo secolo di attività. Il suo lavoro “site specific” data dalla metà degli anni Settanta, e le sue “Determinazioni” – tratti di corda che definiscono le rocce della Gallura, trasformando la scogliera in scultura -, realizzate dal 1983, costituiscono uno degli esempi più importanti di Land Art italiana e non solo. La definizione dello spazio, attraverso linee-forza trasformate in barre metalliche o in travi di legno, rappresenta la sua “cifra” stilistica, che si è andata evolvendo continuamente nel corso degli ultimi tre decenni, fino alla commistione tra superficie quasi pittorica e intervento plastico. L’intento etico del suo lavoro viene costantemente confermato dalla ricerca costante di collaborazione collettiva al lavoro, di “costruzione sociale” dell’opera, che trova la sua metafora sostanziale nella domanda esistenziale sulla propria collocazione nella realtà del mondo.
Come ha scritto Marco Meneguzzo – che di questa mostra antologica è il curatore, e l’estensore del lungo saggio in catalogo – in una lettera indirizzatagli nel 2009 “Il compito che ti sei dato – o se vuoi, il compito che le tue opere hanno scelto per te, visto il senso di necessità che promana da ciascuna di esse e da tutto l’insieme della tua attività - è quello di percorrere in lungo e in largo questo territorio che tutti credono ormai di conoscere, per continuare a definire quegli interstizi inesplorati che esistono anche nelle città più conosciute: se si pensa che lo spazio sia dato una volta per tutte – e già ci si sbaglia, ma solo nel lungo periodo -, al contrario il senso dello spazio muta continuamente, pur non uscendo mai da quei confini conosciuti. Ecco allora che la geometria diventa qualcosa di più personale, e di tutt’altro che universale: è la geometria che ti appartiene quella che ti interessa, quella che percepisci, addirittura quella che ami. Non a caso in tanti lavori degli anni Ottanta misuravi letteralmente un sasso, una distanza, una fessura, con una corda, quasi a rendere visibile e tangibile l’atto del misurare che andavi compiendo, e che restava nella lunghezza di quella cima, nella fotografia di quella pietra, nella pesantezza del blocco di cemento sgrossato; non a caso, in anni più recenti, le tue forme portano con loro e su di loro certi segni, certe scalfitture che le allontanano dall’idea astratta della forma, per farle calare nel concetto di un forma percorsa dal tempo, scelta dall’artista per una qualche ragione sentimentale, più che razionale.”
La mostra antologica, nata da una collaborazione fra la Fondazione Livorno e la Fondazione Piaggio, è stata concepita su due sedi e in periodi consecutivi. Chiusa con grande successo l’8 febbraio la prima esposizione realizzata nella sede della Fondazione Livorno, il 27 Febbraio è attesa l’inaugurazione presso il Museo Piaggio a Pontedera.
Pubblicato per l’occasione un volume-catalogo che ripercorre quasi cinquant’anni di ricchissima attività artistica ed espositiva del Maestro Giovanni Campus.
Giovanni Campus (Olbia 1929), ha studiato a Genova, nel 1966 inizia un rapporto tuttora in atto con la Galleria Giraldi di Livorno, nel 1968 si trasferisce a Milano, dove vive tuttora. E’ di quegli anni l’interesse per le installazioni “in situ”, che per tutti i due decenni successivi lo occupano in varie parti del Paese, dalla Piazzetta di Palazzo Reale a Milano (1977) alle rocce della Gallura (1983), dalla Galleria d’Arte Moderna di Bologna (1978) al Museo Civico In Progress di Livorno (1979), al Parco Comunale di Carbonia (2009).
Venerdì 27 febbraio - Ore 18,30 - Museo Piaggio
Inaugurazione della mostra antologica di Giovanni Campus presso il Museo Piaggio di Pontedera
La figura di Giovanni Campus (Olbia, 1929) è una delle più singolari e autonome nel campo della scultura italiana, che con questa mostra celebra oltre mezzo secolo di attività. Il suo lavoro “site specific” data dalla metà degli anni Settanta, e le sue “Determinazioni” – tratti di corda che definiscono le rocce della Gallura, trasformando la scogliera in scultura -, realizzate dal 1983, costituiscono uno degli esempi più importanti di Land Art italiana e non solo. La definizione dello spazio, attraverso linee-forza trasformate in barre metalliche o in travi di legno, rappresenta la sua “cifra” stilistica, che si è andata evolvendo continuamente nel corso degli ultimi tre decenni, fino alla commistione tra superficie quasi pittorica e intervento plastico. L’intento etico del suo lavoro viene costantemente confermato dalla ricerca costante di collaborazione collettiva al lavoro, di “costruzione sociale” dell’opera, che trova la sua metafora sostanziale nella domanda esistenziale sulla propria collocazione nella realtà del mondo.
Come ha scritto Marco Meneguzzo – che di questa mostra antologica è il curatore, e l’estensore del lungo saggio in catalogo – in una lettera indirizzatagli nel 2009 “Il compito che ti sei dato – o se vuoi, il compito che le tue opere hanno scelto per te, visto il senso di necessità che promana da ciascuna di esse e da tutto l’insieme della tua attività - è quello di percorrere in lungo e in largo questo territorio che tutti credono ormai di conoscere, per continuare a definire quegli interstizi inesplorati che esistono anche nelle città più conosciute: se si pensa che lo spazio sia dato una volta per tutte – e già ci si sbaglia, ma solo nel lungo periodo -, al contrario il senso dello spazio muta continuamente, pur non uscendo mai da quei confini conosciuti. Ecco allora che la geometria diventa qualcosa di più personale, e di tutt’altro che universale: è la geometria che ti appartiene quella che ti interessa, quella che percepisci, addirittura quella che ami. Non a caso in tanti lavori degli anni Ottanta misuravi letteralmente un sasso, una distanza, una fessura, con una corda, quasi a rendere visibile e tangibile l’atto del misurare che andavi compiendo, e che restava nella lunghezza di quella cima, nella fotografia di quella pietra, nella pesantezza del blocco di cemento sgrossato; non a caso, in anni più recenti, le tue forme portano con loro e su di loro certi segni, certe scalfitture che le allontanano dall’idea astratta della forma, per farle calare nel concetto di un forma percorsa dal tempo, scelta dall’artista per una qualche ragione sentimentale, più che razionale.”
La mostra antologica, nata da una collaborazione fra la Fondazione Livorno e la Fondazione Piaggio, è stata concepita su due sedi e in periodi consecutivi. Chiusa con grande successo l’8 febbraio la prima esposizione realizzata nella sede della Fondazione Livorno, il 27 Febbraio è attesa l’inaugurazione presso il Museo Piaggio a Pontedera.
Pubblicato per l’occasione un volume-catalogo che ripercorre quasi cinquant’anni di ricchissima attività artistica ed espositiva del Maestro Giovanni Campus.
Giovanni Campus (Olbia 1929), ha studiato a Genova, nel 1966 inizia un rapporto tuttora in atto con la Galleria Giraldi di Livorno, nel 1968 si trasferisce a Milano, dove vive tuttora. E’ di quegli anni l’interesse per le installazioni “in situ”, che per tutti i due decenni successivi lo occupano in varie parti del Paese, dalla Piazzetta di Palazzo Reale a Milano (1977) alle rocce della Gallura (1983), dalla Galleria d’Arte Moderna di Bologna (1978) al Museo Civico In Progress di Livorno (1979), al Parco Comunale di Carbonia (2009).
IL MIO SECOLO NON MI FA PAURA
IL MIO SECOLO NON MI FA PAURA
Johanna & Ludwig di Fulvio Iannaco
LUNEDI' 02 MARZO e MARTEDI' 31 ore 11,00
TEATRO ANTIGONE (Roma)
SABATO 14 MARZO MATINEE ore 10,30 - serale ore 21,00
APERITICENA ore 19.30 OFFERTO DALLA CASA DEL POPOLO DI SAN BARTOLO A CINTOIA TEATRO DEL BORGO (Firenze)
regia di Rossella Napolano con Annachiara Mantovani e Pier Paolo Iacopini
voci off Pietro Longhi e Pierre Bresolin
Video ufficiale https://www.youtube.com/watch?v=L7rEsFeXdrs&feature=youtu.be
SCHEDA DELLO SPETTACOLO
In una scena semplicissima (una poltrona, molti libri ed un leggio), una donna di oggi si interroga sulla identità femminile.
La riflessione si svolge in due momenti: dapprima raccontandoci della vicenda umana e sentimentale (e del suo fallimento), tra la giovanissima Johanna Kapp allora diciassettenne, siamo negli anni dei moti europei del 1848, e il filosofo Ludwig Andreas Feuerbach, l' autore de:" L'Essenza del Cristianesimo".
Anche attraverso la lettura di alcuni estratti del testo, in cui per la prima volta viene proposta l'idea della religione come creazione inconsapevole della mente dell'uomo stesso, viene raccontata e quasi "vissuta", la storia d'amore che si svolge tra i due, la passione che prende Johanna giovane donna ribelle e insofferente ai dogmi religiosi, per l'intelligenza rivoluzionaria del pensiero di Feuerbach.
Al fallimento dei moti di Francoforte seguirà l'abbandono di Johanna che per la delusione impazzirà, scegliendo la solitudine.
La riflessione prosegue poi con i versi de l' "Eneide" di Virgilio per raccontare la drammatica scelta di morte che Didone, tradita nel suo amore e poi abbandonata dall'eroe predestinato dagli Dei ad essere il fondatore di Roma, decide di compiere.
Tra storia e cultura dunque, la protagonista si chiede e ci chiede quanto la nostra società, dominata da migliaia di anni dalla religione e dalla razionalità, non sia riuscita ancora ad accettare e a permettere la libera realizzazione dell'identità della donna: ammonendola sempre che un destino di follia e di morte attende chi si ribella alla "Legge Morale del Padre".
Una donna che rifiuta i dogmi e vive la passione d'amore può riuscire a resistere ai fallimenti dell'eroe? Alle delusioni?
Una risposta arriva alla protagonista attraverso il rapporto con l'arte e con quanto di verità gli artisti ci hanno suggerito della realtà umana; poi, il suono fisicamente presente di uno strumento musicale la raggiunge nel sonno...
aiuto regia Francesco Sollecito
sax e scelte musicali Pier Paolo Iacopini
luci e proiezioni Giancarlo Mici
effetti audio Giancarlo Mici
video e foto Stefano Giorgi
Durata dello spettacolo: un'ora e un quarto
Al termine dei matinée l'Autore e gli interpreti incontrano gli studenti per approfondire attraverso la discussione, i temi proposti.
Prezzo del biglietto matinée € 5,00 per insegnanti e studenti
serale € 15,00 - € 12,00 per i soci
Teatro Antigone
Roma - Via Amerigo Vespucci, 42 (zona di Testaccio) Roma
Teatro del Borgo
Firenze - Via San Bartolo in Cintoia, 95
Info e Prenotazioni
Cell. 320.2177964
annachiaramantovani@libero.it
Johanna & Ludwig di Fulvio Iannaco
LUNEDI' 02 MARZO e MARTEDI' 31 ore 11,00
TEATRO ANTIGONE (Roma)
SABATO 14 MARZO MATINEE ore 10,30 - serale ore 21,00
APERITICENA ore 19.30 OFFERTO DALLA CASA DEL POPOLO DI SAN BARTOLO A CINTOIA TEATRO DEL BORGO (Firenze)
regia di Rossella Napolano con Annachiara Mantovani e Pier Paolo Iacopini
voci off Pietro Longhi e Pierre Bresolin
Video ufficiale https://www.youtube.com/watch?v=L7rEsFeXdrs&feature=youtu.be
SCHEDA DELLO SPETTACOLO
In una scena semplicissima (una poltrona, molti libri ed un leggio), una donna di oggi si interroga sulla identità femminile.
La riflessione si svolge in due momenti: dapprima raccontandoci della vicenda umana e sentimentale (e del suo fallimento), tra la giovanissima Johanna Kapp allora diciassettenne, siamo negli anni dei moti europei del 1848, e il filosofo Ludwig Andreas Feuerbach, l' autore de:" L'Essenza del Cristianesimo".
Anche attraverso la lettura di alcuni estratti del testo, in cui per la prima volta viene proposta l'idea della religione come creazione inconsapevole della mente dell'uomo stesso, viene raccontata e quasi "vissuta", la storia d'amore che si svolge tra i due, la passione che prende Johanna giovane donna ribelle e insofferente ai dogmi religiosi, per l'intelligenza rivoluzionaria del pensiero di Feuerbach.
Al fallimento dei moti di Francoforte seguirà l'abbandono di Johanna che per la delusione impazzirà, scegliendo la solitudine.
La riflessione prosegue poi con i versi de l' "Eneide" di Virgilio per raccontare la drammatica scelta di morte che Didone, tradita nel suo amore e poi abbandonata dall'eroe predestinato dagli Dei ad essere il fondatore di Roma, decide di compiere.
Tra storia e cultura dunque, la protagonista si chiede e ci chiede quanto la nostra società, dominata da migliaia di anni dalla religione e dalla razionalità, non sia riuscita ancora ad accettare e a permettere la libera realizzazione dell'identità della donna: ammonendola sempre che un destino di follia e di morte attende chi si ribella alla "Legge Morale del Padre".
Una donna che rifiuta i dogmi e vive la passione d'amore può riuscire a resistere ai fallimenti dell'eroe? Alle delusioni?
Una risposta arriva alla protagonista attraverso il rapporto con l'arte e con quanto di verità gli artisti ci hanno suggerito della realtà umana; poi, il suono fisicamente presente di uno strumento musicale la raggiunge nel sonno...
aiuto regia Francesco Sollecito
sax e scelte musicali Pier Paolo Iacopini
luci e proiezioni Giancarlo Mici
effetti audio Giancarlo Mici
video e foto Stefano Giorgi
Durata dello spettacolo: un'ora e un quarto
Al termine dei matinée l'Autore e gli interpreti incontrano gli studenti per approfondire attraverso la discussione, i temi proposti.
Prezzo del biglietto matinée € 5,00 per insegnanti e studenti
serale € 15,00 - € 12,00 per i soci
Teatro Antigone
Roma - Via Amerigo Vespucci, 42 (zona di Testaccio) Roma
Teatro del Borgo
Firenze - Via San Bartolo in Cintoia, 95
Info e Prenotazioni
Cell. 320.2177964
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