Dopo il debutto al Teatro Libero di Palermo il 30 gennaio, Millennium Bug apre la rassegna OFF del Teatro Stabile del Veneto al Ridotto del Teatro Verdi di Padova sabato 6 febbraio 2016 alle 18:30 con replica martedì 9 febbraio alle 21:00.
La settimana dal 23 al 28 febbraio lo spettacolo è in scena a Roma al Teatro Lo Spazio.
MILLENNIUM BUG
di Sergio Gallozzi
liberamente ispirato a Il Maratoneta di Luca Coscioni
con Galliano Mariani
regia Christian Angeli
luci e scenotecnica Giacomo Cursi
musiche Marco Lucchi, Stefano Luca
riprese e fotografia video Andrea Littera
aiuto regia Alessia Filiberti
con la partecipazione amichevole in voce di Carmen Lasorella e Andrea Trovato
produzione Indigena / Teatro Libero Palermo
Millennium Bug è l'ultima produzione di Indigena Teatro, un monologo teatrale inedito di Sergio Gallozzi liberamente ispirato al libro-diario “Il Maratoneta” di Luca Coscioni (ed. Stampa Alternativa, 2003).
Cosa fa un uomo che ha appreso di avere una malattia che lo porterà, senza appello, alla morte nel giro di qualche anno? Sa che il suo corpo diventerà progressivamente di pietra: non potrà muoversi, poi non potrà parlare, anche solo respirare sarà doloroso.
C'è stato un uomo, il quale, appresa la terribile notizia di essere malato di SLA, ha deciso di ricominciare a correre: l'ultima maratona di Luca Coscioni è stata una straordinaria ed appassionata avventura politica, una battaglia di libertà a beneficio di una ricerca scientifica libera contro le forme neo-oscurantiste che, proprio in quei primi anni del tanto atteso nuovo millennio, si stavano riorganizzando.
Millennium Bug ci riporta alla mente quel passato prossimo italiano degli anni zero. Un passato oscuro, zeppo di scommesse perse e di personaggi politici disattenti e inconcludenti. Un passato troppo vicino per essere giudicato con il dovuto distacco e troppo distante per avvertirne ancora la forza propulsiva.
La regia di Christian Angeli non chiede all'interprete Galliano Mariani di impersonare Luca Coscioni, ma di dare corpo al suo pensiero e forma alle sue lotte in posizione dialogica con gli interventi della popolare giornalista Carmen Lasorella.
A dieci anni dalla scomparsa di Coscioni, lo spettacolo scandaglia le possibilità interiori di ogni individuo che sono preludio necessario all'azione politica ed incita il pubblico a riattivare l'attenzione sui temi cosiddetti “etici”, tanto fondamentali nella vita delle persone quanto costantemente rinviati dall'agenda pubblica.
mercoledì 30 dicembre 2015
"Alfons Mucha e le atmosfere Art Nouveau" a Milano
Scritto da Ilaria Guidantoni Sabato, 26 Dicembre 2015
Milano, Palazzo Reale, dal 10 dicembre al 20 marzo 2016
Immagini note di un autore essenziale per il mondo del Liberty e dell’Art Nouveau eppure poco noto almeno in Italia. Una mostra da gustare per appagare l’occhio. Un’epoca dedicata al gusto del bello della ricercatezza, ispirata dalla natura madre e matrigna, incantata dalla donna angelicata e sedotta dalla femme fatale, nella duplice rispondenza della natura madre e matrigna. Mentre il gusto della decorazione, talora leziosa e virtuosistica e della pubblicità si fa strada, emerge anche la ricerca dell’elemento conturbante e del subconscio che nell’ambivalenza della rappresentazione femminile trova il suo centro.
La mostra "Alfons Mucha e le atmosfere Art Nouveau" presso il Palazzo Reale di Milano consente di tuffarsi nel mondo prezioso ed elegante del Liberty, lo stile che a cavallo tra Otto e Novecento caratterizzò il mondo dell'arte, dell'architettura, dell'artigianato e dell'arredo dell'intero contesto europeo – con oltre 220 fra ceramiche, mobili, ferri battuti, vetri, sculture e disegni ripercorrono il periodo a cavallo fra '800 e '900 - raggiungendo vette di ineguagliata raffinatezza con un percorso originale capace di ricostruire il gusto elegante, prezioso e sensuale dell’epoca.
La mostra di Milano si concentra sulla figura dell'artista ceco Alfons Mucha (1860-1939), uno dei maggiori interpreti dall'Art Nouveau. Formatosi nella nativa Moravia, dove inizia la carriera in qualità di decoratore, nel 1887 Mucha si trasferisce a Parigi, dove si dedica principalmente alla produzione di pannelli decorativi, cartelloni pubblicitari, manifesti teatrali, copertine per riviste, calendari, illustrazioni librarie.
Qui compaiono immagini femminili di estrema eleganza, definite da una linea nitida che delimita i contorni. Si afferma così un inconfondibile "stile Mucha", che ottiene fortuna anche negli Stati Uniti, dove il pittore soggiorna tra 1906 e 1910. Rientrato in Europa, si stabilisce a Praga, dove resterà fino alla morte, avvenuta nel 1928, dedicandosi al grandioso progetto dell'Epopea slava, una serie di tele dedicata alla storia del popolo slavo. La mostra di Palazzo Reale racconta la carriera di questo grande artista attraverso le 149 opere prestate per l'occasione dalla Richard Fuxa Foundation. Arricchisce l'esposizione un'ampia selezione di ceramiche, mobili, ferri battuti, vetri, sculture e disegni di artisti e manifatture europei, che testimoniano quello stile floreale che caratterizzò le varie declinazioni nazionali - francese, belga e italiana soprattutto - prese dal Modernismo internazionale. “Alfons Mucha e le atmosfere art nouveau”, è curata da Karel SRP, già curatore della grande mostra monografica sull’artista tenutasi a Praga nel 2013, per la parte relativa alle opere di Mucha, e da Stefania Cretella, studiosa di arti decorative, per la parte dedicata alle arti decorative del periodo art nouveau. In particolare sono da segnalare le ceramiche di Galileo Chini che fondò nel 1896 a Firenze la Manifattura ceramica.
La recensione integrale su Saltinaria.it
Milano, Palazzo Reale, dal 10 dicembre al 20 marzo 2016
Immagini note di un autore essenziale per il mondo del Liberty e dell’Art Nouveau eppure poco noto almeno in Italia. Una mostra da gustare per appagare l’occhio. Un’epoca dedicata al gusto del bello della ricercatezza, ispirata dalla natura madre e matrigna, incantata dalla donna angelicata e sedotta dalla femme fatale, nella duplice rispondenza della natura madre e matrigna. Mentre il gusto della decorazione, talora leziosa e virtuosistica e della pubblicità si fa strada, emerge anche la ricerca dell’elemento conturbante e del subconscio che nell’ambivalenza della rappresentazione femminile trova il suo centro.
La mostra "Alfons Mucha e le atmosfere Art Nouveau" presso il Palazzo Reale di Milano consente di tuffarsi nel mondo prezioso ed elegante del Liberty, lo stile che a cavallo tra Otto e Novecento caratterizzò il mondo dell'arte, dell'architettura, dell'artigianato e dell'arredo dell'intero contesto europeo – con oltre 220 fra ceramiche, mobili, ferri battuti, vetri, sculture e disegni ripercorrono il periodo a cavallo fra '800 e '900 - raggiungendo vette di ineguagliata raffinatezza con un percorso originale capace di ricostruire il gusto elegante, prezioso e sensuale dell’epoca.
La mostra di Milano si concentra sulla figura dell'artista ceco Alfons Mucha (1860-1939), uno dei maggiori interpreti dall'Art Nouveau. Formatosi nella nativa Moravia, dove inizia la carriera in qualità di decoratore, nel 1887 Mucha si trasferisce a Parigi, dove si dedica principalmente alla produzione di pannelli decorativi, cartelloni pubblicitari, manifesti teatrali, copertine per riviste, calendari, illustrazioni librarie.
Qui compaiono immagini femminili di estrema eleganza, definite da una linea nitida che delimita i contorni. Si afferma così un inconfondibile "stile Mucha", che ottiene fortuna anche negli Stati Uniti, dove il pittore soggiorna tra 1906 e 1910. Rientrato in Europa, si stabilisce a Praga, dove resterà fino alla morte, avvenuta nel 1928, dedicandosi al grandioso progetto dell'Epopea slava, una serie di tele dedicata alla storia del popolo slavo. La mostra di Palazzo Reale racconta la carriera di questo grande artista attraverso le 149 opere prestate per l'occasione dalla Richard Fuxa Foundation. Arricchisce l'esposizione un'ampia selezione di ceramiche, mobili, ferri battuti, vetri, sculture e disegni di artisti e manifatture europei, che testimoniano quello stile floreale che caratterizzò le varie declinazioni nazionali - francese, belga e italiana soprattutto - prese dal Modernismo internazionale. “Alfons Mucha e le atmosfere art nouveau”, è curata da Karel SRP, già curatore della grande mostra monografica sull’artista tenutasi a Praga nel 2013, per la parte relativa alle opere di Mucha, e da Stefania Cretella, studiosa di arti decorative, per la parte dedicata alle arti decorative del periodo art nouveau. In particolare sono da segnalare le ceramiche di Galileo Chini che fondò nel 1896 a Firenze la Manifattura ceramica.
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Una splendida vacanza - Teatro de' Servi (Roma)
Scritto da Ilaria Guidantoni Sabato, 26 Dicembre 2015
Dal 15 dicembre al 3 gennaio. Il titolo è la soluzione, il lieto fine, grazie ad un ribaltamento della situazione: i due personaggi “usati” e in qualche modo bersaglio di ironia e inganno si riscattano e si liberano, partendo per il giro del mondo. Commedia dalla comicità immediata e semplice, sul modello della ripetizione di gesti e parole che portano al nonsense. La Compagnia dei Borghi di Parma arriva sul palco del Teatro de’ Servi di Roma per il periodo delle feste natalizie con una commedia scritta e diretta dalla sua direttrice artistica Ester Cantoni, anche interprete nella parte di Marta, una ragazza strampalata, un po’ sopra le righe, disoccupata che vive a casa dell’amica Adriana, abituata a sudarsi la vita e con amori inconcludenti.
Compagnia dei borghi presenta
UNA SPLENDIDA VACANZA
con Marco Cavallaro (Filippo), Giuseppe Renzo (Riccardo), Patrizia Grossi (Adriana), Ester Cantoni (Marta) e Daniele Coscarella (Nicola)
musiche originali e disegno luci Bruno Ilariuzzi
scene e costumi Clara Surro
scritto e diretto da Ester Cantoni
“Una splendida vacanza” è una commedia degli equivoci, ma non nel senso tradizionale della definizione; ambientata ai giorni nostri la narrazione vede Riccardo (Giuseppe Renzo), manager fallito, escogitare l’ennesimo stratagemma per convincere la sorella Adriana (Patrizia Grossi), architetto diligente votato al lavoro, un po’ legnosa, sempre disponibile per tutti, che si dichiara single per scelta, a prestargli i soldi necessari per iniziare un’attività d’allevatore di cani e per trasferire l’allevamento dal giardino di sua sorella in un posto più adeguato.
Per uno strano caso del destino, complice dell’intrigo diviene Filippo, pizzaiolo disoccupato, che per guadagnare dei soldi si presterà ad impersonare un improbabile segretario di un conte spagnolo interessato ad acquistare alcuni cani dell’allevamento di Riccardo. A vestire i panni di questo spassoso personaggio Marco Cavallaro, bravo interprete che già ha calcato numerose volte con successo questo palcoscenico, ad esempio nella scorsa stagione con le commedie "Clandestini" e "That’s amore".
La messa in scena elaborata da Riccardo verrà però disturbata dalla presenza di Marta (Ester Cantoni), amica eccentrica e un po’ invadente della sorella, maniaca dell' associare alle situazioni titoli di film e registi, che cerca di favorire in ogni modo la nascita di un amore per Adriana, e del suo fidanzato Nicola (Daniele Coscarella), musicista di una band, di cui è terribilmente gelosa.
La recensione integrale su Saltinaria.it
Dal 15 dicembre al 3 gennaio. Il titolo è la soluzione, il lieto fine, grazie ad un ribaltamento della situazione: i due personaggi “usati” e in qualche modo bersaglio di ironia e inganno si riscattano e si liberano, partendo per il giro del mondo. Commedia dalla comicità immediata e semplice, sul modello della ripetizione di gesti e parole che portano al nonsense. La Compagnia dei Borghi di Parma arriva sul palco del Teatro de’ Servi di Roma per il periodo delle feste natalizie con una commedia scritta e diretta dalla sua direttrice artistica Ester Cantoni, anche interprete nella parte di Marta, una ragazza strampalata, un po’ sopra le righe, disoccupata che vive a casa dell’amica Adriana, abituata a sudarsi la vita e con amori inconcludenti.
Compagnia dei borghi presenta
UNA SPLENDIDA VACANZA
con Marco Cavallaro (Filippo), Giuseppe Renzo (Riccardo), Patrizia Grossi (Adriana), Ester Cantoni (Marta) e Daniele Coscarella (Nicola)
musiche originali e disegno luci Bruno Ilariuzzi
scene e costumi Clara Surro
scritto e diretto da Ester Cantoni
“Una splendida vacanza” è una commedia degli equivoci, ma non nel senso tradizionale della definizione; ambientata ai giorni nostri la narrazione vede Riccardo (Giuseppe Renzo), manager fallito, escogitare l’ennesimo stratagemma per convincere la sorella Adriana (Patrizia Grossi), architetto diligente votato al lavoro, un po’ legnosa, sempre disponibile per tutti, che si dichiara single per scelta, a prestargli i soldi necessari per iniziare un’attività d’allevatore di cani e per trasferire l’allevamento dal giardino di sua sorella in un posto più adeguato.
Per uno strano caso del destino, complice dell’intrigo diviene Filippo, pizzaiolo disoccupato, che per guadagnare dei soldi si presterà ad impersonare un improbabile segretario di un conte spagnolo interessato ad acquistare alcuni cani dell’allevamento di Riccardo. A vestire i panni di questo spassoso personaggio Marco Cavallaro, bravo interprete che già ha calcato numerose volte con successo questo palcoscenico, ad esempio nella scorsa stagione con le commedie "Clandestini" e "That’s amore".
La messa in scena elaborata da Riccardo verrà però disturbata dalla presenza di Marta (Ester Cantoni), amica eccentrica e un po’ invadente della sorella, maniaca dell' associare alle situazioni titoli di film e registi, che cerca di favorire in ogni modo la nascita di un amore per Adriana, e del suo fidanzato Nicola (Daniele Coscarella), musicista di una band, di cui è terribilmente gelosa.
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mercoledì 23 dicembre 2015
Cercando segnali d’amore nell’universo - Teatro Eliseo (Roma)
Scritto da Ilaria Guidantoni Martedì, 22 Dicembre 2015
Dal 22 dicembre al 3 gennaio. Un grande istrione, una forte versatilità che ha la docilità dell’apparire spontanea, come di chi ha masticato tanto palcoscenico. Sul palco è re, un tantino ammiccante, con qualche tentazione amarcord verso la fine, molta poesia all’inizio e la capacità di essere un artista a tutto tondo. Il finale chiude con il senso del teatro per Luca Barbareschi: la capacità di leggere la musica sul pentagramma, di mettere insieme poesia e matematica è il dono più bello che racconta di aver ricevuto da Dio. Sulla scena traduce la musica in storia e raccontando invenzioni svela la realtà, sentendosi più grande e al sicuro. La sua storia è un intreccio di mondi e culture, un padre ingombrante che ha fatto rima con una madre assente, una profonda solitudine e una disperata ricerca di segni d’amore, girovagando. New York e il jazz restano il leit motiv della colonna sonora.
Produzione Casanova Teatro presenta
CERCANDO SEGNALI D’AMORE NELL’UNIVERSO
con Luca Barbareschi
e con Marco Zurzolo Band
vocalist Angelica Barbareschi
regia di Chiara Noschese
E’ un viaggio di ritorno quello di Luca Barbareschi: ritorno al passato, memoria delle proprie origini, il bisogno di fermarsi, fare il punto e ripartire con un lancio che nella serata è il debutto di sua figlia Angelica come cantante. All’Eliseo ci torna come padrone di casa sempre con Chiara Noschese, questa volta regista dietro le quinte. Ritmato, ironico, incalzante, acrobatico, a tratti graffiante anche con se stesso: una confessione che non è mai un’esibizione. E’ di impatto ma gioca bene l’equilibrio tra il sé e gli altri, senza venire addosso al pubblico, senza esibirsi: piuttosto si confessa e vuota il sacco, tutto fino in fondo, senza farsi sconti. Il risultato è autentico e il pubblico lo sente.
E’ la parabola tra note e parole, con inserti di danza, varietà, voci e canzoni, di un saltimbanco, artista che si è formato a tutto tondo tra gli ostacoli di un inizio che come per molti non è stato facile. La prima parte dello spettacolo respira l’aria dell’infanzia, la musica del sud America, la presenza ingombrante di un padre, peraltro molto assente, della mamma che lo abbandona, di una profonda solitudine e della ricerca perenne di segni d’amore. Un mendicante d’amore, in un gineceo di zie e tate, di fascinazioni femminili, di pasticci, grovigli e tanta voglia di vivere, a volta con qualche deriva. Senza sosta, due ore sul palco senza un rallentamento, un cedimento, una performance da attore a tutto tondo, dominatore del palcoscenico con il tocco sottile.
La recensione integrale su Saltinaria.it
Dal 22 dicembre al 3 gennaio. Un grande istrione, una forte versatilità che ha la docilità dell’apparire spontanea, come di chi ha masticato tanto palcoscenico. Sul palco è re, un tantino ammiccante, con qualche tentazione amarcord verso la fine, molta poesia all’inizio e la capacità di essere un artista a tutto tondo. Il finale chiude con il senso del teatro per Luca Barbareschi: la capacità di leggere la musica sul pentagramma, di mettere insieme poesia e matematica è il dono più bello che racconta di aver ricevuto da Dio. Sulla scena traduce la musica in storia e raccontando invenzioni svela la realtà, sentendosi più grande e al sicuro. La sua storia è un intreccio di mondi e culture, un padre ingombrante che ha fatto rima con una madre assente, una profonda solitudine e una disperata ricerca di segni d’amore, girovagando. New York e il jazz restano il leit motiv della colonna sonora.
Produzione Casanova Teatro presenta
CERCANDO SEGNALI D’AMORE NELL’UNIVERSO
con Luca Barbareschi
e con Marco Zurzolo Band
vocalist Angelica Barbareschi
regia di Chiara Noschese
E’ un viaggio di ritorno quello di Luca Barbareschi: ritorno al passato, memoria delle proprie origini, il bisogno di fermarsi, fare il punto e ripartire con un lancio che nella serata è il debutto di sua figlia Angelica come cantante. All’Eliseo ci torna come padrone di casa sempre con Chiara Noschese, questa volta regista dietro le quinte. Ritmato, ironico, incalzante, acrobatico, a tratti graffiante anche con se stesso: una confessione che non è mai un’esibizione. E’ di impatto ma gioca bene l’equilibrio tra il sé e gli altri, senza venire addosso al pubblico, senza esibirsi: piuttosto si confessa e vuota il sacco, tutto fino in fondo, senza farsi sconti. Il risultato è autentico e il pubblico lo sente.
E’ la parabola tra note e parole, con inserti di danza, varietà, voci e canzoni, di un saltimbanco, artista che si è formato a tutto tondo tra gli ostacoli di un inizio che come per molti non è stato facile. La prima parte dello spettacolo respira l’aria dell’infanzia, la musica del sud America, la presenza ingombrante di un padre, peraltro molto assente, della mamma che lo abbandona, di una profonda solitudine e della ricerca perenne di segni d’amore. Un mendicante d’amore, in un gineceo di zie e tate, di fascinazioni femminili, di pasticci, grovigli e tanta voglia di vivere, a volta con qualche deriva. Senza sosta, due ore sul palco senza un rallentamento, un cedimento, una performance da attore a tutto tondo, dominatore del palcoscenico con il tocco sottile.
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lunedì 21 dicembre 2015
Matteo Pericoli, quando il disegno narra
Scritto da Ilaria Guidantoni Sabato, 19 Dicembre 2015
Abbiamo incontrato questo disegnatore, un narratore attraverso le immagini, alla libreria L’Argonauta Libri per viaggiare di Roma qualche tempo fa in occasione della presentazione del suo libro Finestre sul mondo. 50 scrittori, 50 vedute (edito da EDT per la collana Piccola biblioteca di Ulisse) e il giorno seguente all’inaugurazione della mostra dei disegni presenti nel libro così abbiamo deciso di addentrarci in questo mondo di linee e segni, di un grande osservatore. A quasi tutti probabilmente è capitato di fermarsi a riflettere guardando fuori dalla finestra della propria stanza o del proprio ambiente di lavoro. Che cosa cercano i nostri occhi in quel paesaggio così consueto e in qualche modo rassicurante? Il nostro pensiero, la nostra esistenza, quanto ne sono influenzati? Matteo Pericoli ha coinvolto cinquanta scrittori da tutto il mondo in una sorta di riflessione collettiva su questo tema, accostando a ciascuna risposta il disegno della finestra, e della relativa vista, ai quali il testo fa riferimento, dalle grandi cupole della Istanbul di Orhan Pamuk alla cangiante New Delhi di Rana Dasgupta, dal semplice patio sudafricano di Nadine Gordimer al giardino milanese di Tim Parks. Il risultato è una polifonia di voci e visioni che rivelano all'autore, e con lui al lettore, delle inattese corrispondenze: «Ho la netta sensazione che una finestra sia qualcosa di più che un punto di contatto o di separazione dal mondo esterno. È anche, e forse soprattutto, una specie di specchio che riflette i nostri sguardi verso l'interno, verso di noi e sulla nostra stessa vita.»
Come nasce la sua passione per il disegno e quando ha avuto origine? C'è stata un'immagine che ha segnato una svolta?
«Il disegno in realtà è nato con me, o io con lui; nel senso che in famiglia, per via del mestiere di mio padre, ma anche perché mia nonna (da parte materna) era un’artista nascosta — e che a insaputa
quasi di tutti dipingeva, faceva intricati e bellissimi arazzi, suonava — il disegno era un linguaggio molto presente, quasi complementare. Non ci sono state quindi vere e proprie svolte, o scoperte. Forse potrei dire di averlo riscoperto un paio di volte: quando avevo 16-18 anni — a quel punto erano parecchi anni che avevo smesso di disegnare e tutt’a un tratto scoprii che mi veniva bene, che mi piaceva. E poi una volta arrivato a New York, a 26 anni — lì mi accorsi che potevo usare il disegno per comprendere (e, forse, raccontare) il meraviglioso mondo in cui ero andato a capitare.»
Quando ha cominciato a dedicarsi in modo serio e poi esclusivo al disegno?
«Appunto, come dicevo sopra, a New York. Mentre ero ancora in Italia, e studiavo architettura, pensavo che il disegno mi sarebbe poi servito semplicemente per poter svolgere il mestiere di architetto. E così è stato: quando ho lavorato nello studio di Richard Meier, a New York, ogni progetto, prima di essere trasferito sui programmi di cad, veniva disegnato a mano, dalle scale al 1.000 fino ai dettagli 1:1. E la mano, come si suol dire, m’è tornata molto utile in quegli anni. Anzi, forse è proprio lì che l’ho addestrata a curarsi delle linee come fossero delle sottilissime e filamentose parole, ognuna importante come le altre e nessuna che predominasse urlando sopra alle altre.»
L'intervista integrale su Saltinaria.it
Abbiamo incontrato questo disegnatore, un narratore attraverso le immagini, alla libreria L’Argonauta Libri per viaggiare di Roma qualche tempo fa in occasione della presentazione del suo libro Finestre sul mondo. 50 scrittori, 50 vedute (edito da EDT per la collana Piccola biblioteca di Ulisse) e il giorno seguente all’inaugurazione della mostra dei disegni presenti nel libro così abbiamo deciso di addentrarci in questo mondo di linee e segni, di un grande osservatore. A quasi tutti probabilmente è capitato di fermarsi a riflettere guardando fuori dalla finestra della propria stanza o del proprio ambiente di lavoro. Che cosa cercano i nostri occhi in quel paesaggio così consueto e in qualche modo rassicurante? Il nostro pensiero, la nostra esistenza, quanto ne sono influenzati? Matteo Pericoli ha coinvolto cinquanta scrittori da tutto il mondo in una sorta di riflessione collettiva su questo tema, accostando a ciascuna risposta il disegno della finestra, e della relativa vista, ai quali il testo fa riferimento, dalle grandi cupole della Istanbul di Orhan Pamuk alla cangiante New Delhi di Rana Dasgupta, dal semplice patio sudafricano di Nadine Gordimer al giardino milanese di Tim Parks. Il risultato è una polifonia di voci e visioni che rivelano all'autore, e con lui al lettore, delle inattese corrispondenze: «Ho la netta sensazione che una finestra sia qualcosa di più che un punto di contatto o di separazione dal mondo esterno. È anche, e forse soprattutto, una specie di specchio che riflette i nostri sguardi verso l'interno, verso di noi e sulla nostra stessa vita.»
Come nasce la sua passione per il disegno e quando ha avuto origine? C'è stata un'immagine che ha segnato una svolta?
«Il disegno in realtà è nato con me, o io con lui; nel senso che in famiglia, per via del mestiere di mio padre, ma anche perché mia nonna (da parte materna) era un’artista nascosta — e che a insaputa
quasi di tutti dipingeva, faceva intricati e bellissimi arazzi, suonava — il disegno era un linguaggio molto presente, quasi complementare. Non ci sono state quindi vere e proprie svolte, o scoperte. Forse potrei dire di averlo riscoperto un paio di volte: quando avevo 16-18 anni — a quel punto erano parecchi anni che avevo smesso di disegnare e tutt’a un tratto scoprii che mi veniva bene, che mi piaceva. E poi una volta arrivato a New York, a 26 anni — lì mi accorsi che potevo usare il disegno per comprendere (e, forse, raccontare) il meraviglioso mondo in cui ero andato a capitare.»
Quando ha cominciato a dedicarsi in modo serio e poi esclusivo al disegno?
«Appunto, come dicevo sopra, a New York. Mentre ero ancora in Italia, e studiavo architettura, pensavo che il disegno mi sarebbe poi servito semplicemente per poter svolgere il mestiere di architetto. E così è stato: quando ho lavorato nello studio di Richard Meier, a New York, ogni progetto, prima di essere trasferito sui programmi di cad, veniva disegnato a mano, dalle scale al 1.000 fino ai dettagli 1:1. E la mano, come si suol dire, m’è tornata molto utile in quegli anni. Anzi, forse è proprio lì che l’ho addestrata a curarsi delle linee come fossero delle sottilissime e filamentose parole, ognuna importante come le altre e nessuna che predominasse urlando sopra alle altre.»
L'intervista integrale su Saltinaria.it
Kamikaze Number Five - Teatro dell'Orologio (Roma)
Scritto da Ilaria Guidantoni Sabato, 19 Dicembre 2015
Originale, straniante, spiazzante, provocatorio, allucinatorio, per certi aspetti surreale, nitido, carnale e a tratti nebuloso. E’ tutto questo ma sfugge a ogni definizione. E’ la confessione delirante e strabiliante ad un tempo di un kamikaze, in una inedita congiunzione del sacro con il profano. Esplosivo, per l’appunto, da risultare a tratti grottesco se non fosse drammatico. Un’interpretazione di alto profilo e una prestazione singolare. Woody Neri porta in scena "Kamikaze Number Five" di Giuseppe Massa, con la regia di Giuseppe Isgrò, al Teatro dell'Orologio fino a domenica 20 dicembre.
KAMIKAZE NUMBER FIVE
di Giuseppe Massa
con Woody Neri
regia Giuseppe Isgrò
dramaturg Francesca Marianna Consonni
suono Giovanni Isgrò
sarta Camilla Magnani
produzione Phoebe Zeitgeist e Vanaclu'
in coproduzione con Progetto Goldstein
in collaborazione con Teatro dell'Orologio, Associazione Teatrale Pistoiese, La Corte Ospitale Rubiera, Spazio OFF Trento
La piccola sala, dal soffitto basso, dipinta di nero, senza separazione tra palcoscenico e pubblico, un piano sotto terra del Teatro dell’Orologio di Roma, è l’abitacolo perfetto per rendere la pièce più che credibile. Sufficientemente angusto da rendere inquietante una performance che non sembra recitata soprattutto di questi tempi. Cosa passa nella testa di un suicida omicida stragista che può colpire perfino la sua casa? Ce lo saremo chiesto tante volte in questi ultimi tempi, dove la parola kamikaze è una delle più usate ed abusate.
Siamo in un clima di sospensione: è il dies irae, il giorno del giudizio, dalla parte del protagonista, un monologo allucinato con Dio, l’angelo, con il proprio padre, la propria madre e perfino una figlia. E’ una dichiarazione d’odio, di chi non ha più un cuore perché aveva fame e se l’è mangiato. E’ la guerra dichiarata ai maiali, in particolare al presidente dei maiali, che sono tutti i non credenti, specie forse quelli che di maiali si cibano. E’ una lotta senza quartiere, senza ragioni, contro tutto quello che non è esattamente l’interpretazione Coranica, secondo questa mostruosa deformità che il mondo chiama Isis e che meglio sarebbe definire Da’ich o comunque lo si voglia chiamare: terrorismo di matrice sedicente islamista.
La recensione integrale su Saltinaria.it
Originale, straniante, spiazzante, provocatorio, allucinatorio, per certi aspetti surreale, nitido, carnale e a tratti nebuloso. E’ tutto questo ma sfugge a ogni definizione. E’ la confessione delirante e strabiliante ad un tempo di un kamikaze, in una inedita congiunzione del sacro con il profano. Esplosivo, per l’appunto, da risultare a tratti grottesco se non fosse drammatico. Un’interpretazione di alto profilo e una prestazione singolare. Woody Neri porta in scena "Kamikaze Number Five" di Giuseppe Massa, con la regia di Giuseppe Isgrò, al Teatro dell'Orologio fino a domenica 20 dicembre.
KAMIKAZE NUMBER FIVE
di Giuseppe Massa
con Woody Neri
regia Giuseppe Isgrò
dramaturg Francesca Marianna Consonni
suono Giovanni Isgrò
sarta Camilla Magnani
produzione Phoebe Zeitgeist e Vanaclu'
in coproduzione con Progetto Goldstein
in collaborazione con Teatro dell'Orologio, Associazione Teatrale Pistoiese, La Corte Ospitale Rubiera, Spazio OFF Trento
La piccola sala, dal soffitto basso, dipinta di nero, senza separazione tra palcoscenico e pubblico, un piano sotto terra del Teatro dell’Orologio di Roma, è l’abitacolo perfetto per rendere la pièce più che credibile. Sufficientemente angusto da rendere inquietante una performance che non sembra recitata soprattutto di questi tempi. Cosa passa nella testa di un suicida omicida stragista che può colpire perfino la sua casa? Ce lo saremo chiesto tante volte in questi ultimi tempi, dove la parola kamikaze è una delle più usate ed abusate.
Siamo in un clima di sospensione: è il dies irae, il giorno del giudizio, dalla parte del protagonista, un monologo allucinato con Dio, l’angelo, con il proprio padre, la propria madre e perfino una figlia. E’ una dichiarazione d’odio, di chi non ha più un cuore perché aveva fame e se l’è mangiato. E’ la guerra dichiarata ai maiali, in particolare al presidente dei maiali, che sono tutti i non credenti, specie forse quelli che di maiali si cibano. E’ una lotta senza quartiere, senza ragioni, contro tutto quello che non è esattamente l’interpretazione Coranica, secondo questa mostruosa deformità che il mondo chiama Isis e che meglio sarebbe definire Da’ich o comunque lo si voglia chiamare: terrorismo di matrice sedicente islamista.
La recensione integrale su Saltinaria.it
lunedì 14 dicembre 2015
Processo, morte e santificazione di un Pulcinella che non voleva portare la maschera - Dal 18 al 20 gennaio a Roma
Cosa accadrebbe se Pulcinella si stancasse di portare la maschera? Ovviamente sarebbe processato. Il contraddittorio inizia e nell'aula di un folle tribunale si alternano personaggi iconici della commedia dell'arte, stereotipi del teatro contemporaneo e molti altri.
Otto giovani attori interpreti di caricature grottesche e ridicole, giochi di parole, doppi sensi, il linguaggio del corpo e la farsa, si parte dalla commedia e si sconfina nel melodramma.
Pulcinella è tutti e nessuno: sciocco, saltimbanco, servo e padrone, innamorato, malinconico, schiavo di se stesso e della sua umanità.
Si gioca con il ritmo, la poesia, i volti e le maschere. L'obiettivo è far ridere, commuovere, riflettere e alla fine, forse, niente è davvero come sembra.
Note di regia - Donatella Barbagallo
Lo spettacolo è un viaggio all'interno di un mondo sintetizzato dalla musica, dal ritmo e dalle parole. La maschera del titolo non è semplicemente la maschera da intendere come mascheramento, camuffamento, camouflage o come mera attività performativa, la maschera siamo noi.
L'idea che perseguo nello spettacolo è quella di rivelare "pezzi" di se stessi utilizzando anche la metafora circense.
Processo, morte e santificazione di un Pulcinella che non voleva portare la maschera
di Davide Sacco
con Donatella Barbagallo, Giulio Cancelli, Stefano Chiliberti,
Chiara Della Rossa, Stefano Flamia, Giuseppe Abramo,
Bruno Monico e Valeria Palma
Regia Donatella Barbagallo
TEATRO AMBRA ALLA GARBATELLA
Piazza Giovanni da Triora 15
Lunedì 18, martedì 19, mercoledì 20 gennaio 2016 ore 21.00
per prenotazioni: info@ambragarbatella.com
Otto giovani attori interpreti di caricature grottesche e ridicole, giochi di parole, doppi sensi, il linguaggio del corpo e la farsa, si parte dalla commedia e si sconfina nel melodramma.
Pulcinella è tutti e nessuno: sciocco, saltimbanco, servo e padrone, innamorato, malinconico, schiavo di se stesso e della sua umanità.
Si gioca con il ritmo, la poesia, i volti e le maschere. L'obiettivo è far ridere, commuovere, riflettere e alla fine, forse, niente è davvero come sembra.
Note di regia - Donatella Barbagallo
Lo spettacolo è un viaggio all'interno di un mondo sintetizzato dalla musica, dal ritmo e dalle parole. La maschera del titolo non è semplicemente la maschera da intendere come mascheramento, camuffamento, camouflage o come mera attività performativa, la maschera siamo noi.
L'idea che perseguo nello spettacolo è quella di rivelare "pezzi" di se stessi utilizzando anche la metafora circense.
Processo, morte e santificazione di un Pulcinella che non voleva portare la maschera
di Davide Sacco
con Donatella Barbagallo, Giulio Cancelli, Stefano Chiliberti,
Chiara Della Rossa, Stefano Flamia, Giuseppe Abramo,
Bruno Monico e Valeria Palma
Regia Donatella Barbagallo
TEATRO AMBRA ALLA GARBATELLA
Piazza Giovanni da Triora 15
Lunedì 18, martedì 19, mercoledì 20 gennaio 2016 ore 21.00
per prenotazioni: info@ambragarbatella.com
“Bellezza divina” tra Van Gogh, Chagall e Fontana. Firenze, Palazzo Strozzi
Scritto da Ilaria Guidantoni Domenica, 13 Dicembre 2015
Main sponsor Arcidiocesi di Firenze e Banca Cassa di Risparmio di Firenze
24 settembre 2014/24 gennaio 2016
L’arte sacra e la sua rivoluzione dalla seconda metà Ottocento alla prima metà del Novecento: il passaggio dal sacro trascendente alla storicizzazione della sacralità con al centro il Cristo come uomo. Un percorso ricco e articolato che disegna la centralità della sacralità come ricerca spirituale più che religiosa nell’artista contemporaneo e la sua contraddittorietà anche nella rappresentazione.
Una mostra solo apparentemente classica che attraversa un secolo rivoluzionario nel rapporto tra l’uomo e il divino: il travaglio interiore che porta gli artisti a cercare la spiritualità prima e anche indipendentemente dalla religiosità si manifesta nel lavoro artistico, cambiando i connotati della rappresentazione sacrale. Una mostra ricca e articolata con un allestimento ben scandito nelle sessioni tematiche che cercano di cogliere i vari aspetti della sacra rappresentazione e finalmente una buona illuminazione delle opere che non è per nulla scontata.
Il percorso inizia con quadri di grandi e grandissime dimensioni quando la pala d’altare è ancora la forma dominante nella rappresentazione sacra e riunisce artisti italiani tra i quali Domenico Morelli con la “caduta di San Paolo”, con la pennellata dinamica di ascendenza impressionista e la luce che diventa protagonista, nel segno del realismo, non teatrale, Gaetano Previati, Felice Casorati, Gino Severini, Renato Guttuso, Lucio Fontana, Emilio Vedova; e internazionali come Vincent Van Gogh che con la sua “pietà” dei Musei Vaticani “firma” la locandina dell’esposizione, Jean-François Millet, Edvard Munch, Pablo Picasso, Max Ernest, Georges Roualt, Henri Matisse ed Elisabeth Chpalin, artista francese di Fontenbleau naturalizzata fiorentina, di grande raffinatezza che nella sua Madonna con bambino imprime ai corpi un movimento rotatorio nell’avvolgenza del velo rosso e risente della lezione dei nabis. Le tematiche spaziano dalla sacra famiglia, all’annunciazione all’iconografia della Madonna riscoperta nella sua centralità nel corso dell’Ottocento dove alla suggestione mistica, si aggiunge il recupero della lezione stilnovistica della donna angelicata e della virtù femminile quale musa dell’arte e del percorso spirituale dell’artista nonché una nuova sensualità anche conturbante come nel caso delle due opere in mostra di Edvard Munch con la cornice attraversata da spermatozoi.
La recensione integrale su Saltinaria.it
Main sponsor Arcidiocesi di Firenze e Banca Cassa di Risparmio di Firenze
24 settembre 2014/24 gennaio 2016
L’arte sacra e la sua rivoluzione dalla seconda metà Ottocento alla prima metà del Novecento: il passaggio dal sacro trascendente alla storicizzazione della sacralità con al centro il Cristo come uomo. Un percorso ricco e articolato che disegna la centralità della sacralità come ricerca spirituale più che religiosa nell’artista contemporaneo e la sua contraddittorietà anche nella rappresentazione.
Una mostra solo apparentemente classica che attraversa un secolo rivoluzionario nel rapporto tra l’uomo e il divino: il travaglio interiore che porta gli artisti a cercare la spiritualità prima e anche indipendentemente dalla religiosità si manifesta nel lavoro artistico, cambiando i connotati della rappresentazione sacrale. Una mostra ricca e articolata con un allestimento ben scandito nelle sessioni tematiche che cercano di cogliere i vari aspetti della sacra rappresentazione e finalmente una buona illuminazione delle opere che non è per nulla scontata.
Il percorso inizia con quadri di grandi e grandissime dimensioni quando la pala d’altare è ancora la forma dominante nella rappresentazione sacra e riunisce artisti italiani tra i quali Domenico Morelli con la “caduta di San Paolo”, con la pennellata dinamica di ascendenza impressionista e la luce che diventa protagonista, nel segno del realismo, non teatrale, Gaetano Previati, Felice Casorati, Gino Severini, Renato Guttuso, Lucio Fontana, Emilio Vedova; e internazionali come Vincent Van Gogh che con la sua “pietà” dei Musei Vaticani “firma” la locandina dell’esposizione, Jean-François Millet, Edvard Munch, Pablo Picasso, Max Ernest, Georges Roualt, Henri Matisse ed Elisabeth Chpalin, artista francese di Fontenbleau naturalizzata fiorentina, di grande raffinatezza che nella sua Madonna con bambino imprime ai corpi un movimento rotatorio nell’avvolgenza del velo rosso e risente della lezione dei nabis. Le tematiche spaziano dalla sacra famiglia, all’annunciazione all’iconografia della Madonna riscoperta nella sua centralità nel corso dell’Ottocento dove alla suggestione mistica, si aggiunge il recupero della lezione stilnovistica della donna angelicata e della virtù femminile quale musa dell’arte e del percorso spirituale dell’artista nonché una nuova sensualità anche conturbante come nel caso delle due opere in mostra di Edvard Munch con la cornice attraversata da spermatozoi.
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giovedì 10 dicembre 2015
3M, la fotografa che fotografava donne…dello spettacolo fuori dello spettacolo
Scritto da Ilaria Guidantoni Martedì, 08 Dicembre 2015
Un’esposizione a colori di formato quadrato di Chiara Samugheo
In occasione della fine dell’anno la Fondazione 3M Italia, terminato il lavoro di aggiornamento dell’archivio fotografico, ha presentato nella sua sede romana ventidue stampe a colori di Chiara Samugheo, prima donna italiana a diventare fotografa professionista, nata a Bari il 25 marzo 1935 come Chiara Paparella.
L’abbiamo visitata insieme al Segretario generale della Fondazione Daniela Aleggiani e il Curatore della mostra Roberto Mutti che ci ha illustrato la particolarità di questa fotografa, donna che ha ritratto donne dello spettacolo, ma fuori dal set in posizioni ed espressioni insolite, confidenziali, domestiche, fuori dal concetto del “posato”, certamente innovativo per l’epoca. Inoltre da considerare il formato quadrato, decisamente nuovo e anche, a mio parere, la tecnica per cui lo sfondo che contestualizza l’immagine in un reale vissuto, è sfuocato come nella tecnica cinematografica più recente importata dagli Stati Uniti. Come ci ha raccontato Mutti l’amicizia e, talora, la confidenza con le protagoniste delle foto ha consentito un’ambientazione insolita, intima e anche un’espressività che non riesce ad emergere solitamente in un ritratto.
“L’apparenza e il senso”, questo il titolo dell’esposizione, rivela qualcosa di intrigante e incantevole nei ritratti che Chiara Samugheo ha scattato negli anni Sessanta e Settanta ad attrici, cantanti, soubrette – quali tra cui Liz Taylor, Shirley MacLaine, Monica Vitti, Sophia Loren, Claudia Cardinale e Gina Lollobrigida - che, nell’Italia di quell’epoca, costituivano il sistema di un divismo prevalentemente legato al mondo del cinema. «Se, nonostante la distanza temporale, queste immagini mantengono intatta la loro forza comunicativa – ha precisato Mutti - è perché sono state realizzate con uno stile molto personale che nasconde dietro la sua apparente semplicità una raffinata e attenta elaborazione espressiva.
L'articolo integrale su Saltinaria.it
Un’esposizione a colori di formato quadrato di Chiara Samugheo
In occasione della fine dell’anno la Fondazione 3M Italia, terminato il lavoro di aggiornamento dell’archivio fotografico, ha presentato nella sua sede romana ventidue stampe a colori di Chiara Samugheo, prima donna italiana a diventare fotografa professionista, nata a Bari il 25 marzo 1935 come Chiara Paparella.
L’abbiamo visitata insieme al Segretario generale della Fondazione Daniela Aleggiani e il Curatore della mostra Roberto Mutti che ci ha illustrato la particolarità di questa fotografa, donna che ha ritratto donne dello spettacolo, ma fuori dal set in posizioni ed espressioni insolite, confidenziali, domestiche, fuori dal concetto del “posato”, certamente innovativo per l’epoca. Inoltre da considerare il formato quadrato, decisamente nuovo e anche, a mio parere, la tecnica per cui lo sfondo che contestualizza l’immagine in un reale vissuto, è sfuocato come nella tecnica cinematografica più recente importata dagli Stati Uniti. Come ci ha raccontato Mutti l’amicizia e, talora, la confidenza con le protagoniste delle foto ha consentito un’ambientazione insolita, intima e anche un’espressività che non riesce ad emergere solitamente in un ritratto.
“L’apparenza e il senso”, questo il titolo dell’esposizione, rivela qualcosa di intrigante e incantevole nei ritratti che Chiara Samugheo ha scattato negli anni Sessanta e Settanta ad attrici, cantanti, soubrette – quali tra cui Liz Taylor, Shirley MacLaine, Monica Vitti, Sophia Loren, Claudia Cardinale e Gina Lollobrigida - che, nell’Italia di quell’epoca, costituivano il sistema di un divismo prevalentemente legato al mondo del cinema. «Se, nonostante la distanza temporale, queste immagini mantengono intatta la loro forza comunicativa – ha precisato Mutti - è perché sono state realizzate con uno stile molto personale che nasconde dietro la sua apparente semplicità una raffinata e attenta elaborazione espressiva.
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lunedì 7 dicembre 2015
Il Bardo ad Aquileia
Scritto da Ilaria Guidantoni Giovedì, 03 Dicembre 2015
Dal 6 dicembre 2015 al 31 gennaio 2016
Museo Archeologico Nazionale di Aquileia “Il Bardo ad Aquileia”
Quando l’arte diventa una risposta all’accoglienza: la prima tappa del viaggio nell’archeologia ferita del Mediterraneo. Il gemellaggio delle opere del Bardo di Tunisi con il Museo archeologico di Aquileia è un simbolo, all’indomani della tragedia dell’archeologia ferita dal terrorismo, metafora della distruzione della società da una parte, di rinnovata tolleranza e accoglienza dall’altra con l’obiettivo che il Mediterraneo torni ad essere un chiasmo tra popoli e culture. Aquileia, città mediterranea del nord, in una regione di passaggio e di incontro-scontro di profughi, attraverso l’arte intende offrire anche un’iniziativa sostenibile ad un’economia in crisi per un sviluppo che sia nel segno della cultura.
«E’ tempo ormai che la vittima dimenticata di queste tragedie, che è il patrimonio culturale, divenga oggetto di attenzione continua e sistematica.» Dall’appello di Paolo Matthiae «Quando finirà tutto questo male? Haec olim meminisse iuvabit.» Lettera di Giulio Carlo Argan a Pasquale Rotondi che sottrasse al saccheggio nazista opere inestimabili da Roma, Milano e Venezia tra cui “La Tempesta” di Giorgione
Prende il via con opere dal Museo di Tunisi il progetto Archeologia ferita, dal prossimo 6 dicembre, e fino al 31 gennaio 2016, grazie alla Fondazione Aquileia, al Museo Archeologico Nazionale di Aquileia che ospiterà importanti reperti in arrivo dal Museo Nazionale del Bardo di Tunisi, colpito lo scorso 18 marzo 2015 dall’efferatezza del terrorismo fondamentalista.
L’iniziativa “Il Bardo ad Aquileia” è nata il 18 maggio scorso, in occasione della visita del presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella in Tunisia, come ha raccontato il Presidente della Fondazione Aquileia Antonio Zanardi Landi (allora Consigliere diplomatico del presidente). La proposta – per un costo complessivo di 140mila euro con una pubblicazione dedicata in francese e italiano – mira a testimoniare la vicinanza tra il popolo tunisino e quello italiano e, oltre ad essere un gesto di amicizia e solidarietà, rappresenta una corrispondenza culturale tra le due sponde mediterranee. Le 8 opere provenienti dal Bardo di Tunisi – che raccoglie la più grande collezione di mosaici romani al mondo - dialogheranno con i manufatti aquilesi non solo per sottolineare i legami e i collegamenti che caratterizzavano il Nord Africa e l’Alto Adriatico in età romana, nell’ambito di una circolazione di culture e religioni che abbracciava l’intero bacino del Mediterraneo, ma anche a testimonianza di quanti si oppongono a questa nuova terribile iconoclastia che tenta di negare alla radice il dialogo interculturale e interreligioso. La mostra - in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia e il Polo Museale del Friuli Venezia Giulia- intende essere la prima di una serie di iniziative con l’obiettivo di portare in successione e con cadenza semestrale ad Aquileia opere d’arte significative provenienti da musei e siti colpiti dai tragici attacchi del terrorismo fondamentalista.
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Dal 6 dicembre 2015 al 31 gennaio 2016
Museo Archeologico Nazionale di Aquileia “Il Bardo ad Aquileia”
Quando l’arte diventa una risposta all’accoglienza: la prima tappa del viaggio nell’archeologia ferita del Mediterraneo. Il gemellaggio delle opere del Bardo di Tunisi con il Museo archeologico di Aquileia è un simbolo, all’indomani della tragedia dell’archeologia ferita dal terrorismo, metafora della distruzione della società da una parte, di rinnovata tolleranza e accoglienza dall’altra con l’obiettivo che il Mediterraneo torni ad essere un chiasmo tra popoli e culture. Aquileia, città mediterranea del nord, in una regione di passaggio e di incontro-scontro di profughi, attraverso l’arte intende offrire anche un’iniziativa sostenibile ad un’economia in crisi per un sviluppo che sia nel segno della cultura.
«E’ tempo ormai che la vittima dimenticata di queste tragedie, che è il patrimonio culturale, divenga oggetto di attenzione continua e sistematica.» Dall’appello di Paolo Matthiae «Quando finirà tutto questo male? Haec olim meminisse iuvabit.» Lettera di Giulio Carlo Argan a Pasquale Rotondi che sottrasse al saccheggio nazista opere inestimabili da Roma, Milano e Venezia tra cui “La Tempesta” di Giorgione
Prende il via con opere dal Museo di Tunisi il progetto Archeologia ferita, dal prossimo 6 dicembre, e fino al 31 gennaio 2016, grazie alla Fondazione Aquileia, al Museo Archeologico Nazionale di Aquileia che ospiterà importanti reperti in arrivo dal Museo Nazionale del Bardo di Tunisi, colpito lo scorso 18 marzo 2015 dall’efferatezza del terrorismo fondamentalista.
L’iniziativa “Il Bardo ad Aquileia” è nata il 18 maggio scorso, in occasione della visita del presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella in Tunisia, come ha raccontato il Presidente della Fondazione Aquileia Antonio Zanardi Landi (allora Consigliere diplomatico del presidente). La proposta – per un costo complessivo di 140mila euro con una pubblicazione dedicata in francese e italiano – mira a testimoniare la vicinanza tra il popolo tunisino e quello italiano e, oltre ad essere un gesto di amicizia e solidarietà, rappresenta una corrispondenza culturale tra le due sponde mediterranee. Le 8 opere provenienti dal Bardo di Tunisi – che raccoglie la più grande collezione di mosaici romani al mondo - dialogheranno con i manufatti aquilesi non solo per sottolineare i legami e i collegamenti che caratterizzavano il Nord Africa e l’Alto Adriatico in età romana, nell’ambito di una circolazione di culture e religioni che abbracciava l’intero bacino del Mediterraneo, ma anche a testimonianza di quanti si oppongono a questa nuova terribile iconoclastia che tenta di negare alla radice il dialogo interculturale e interreligioso. La mostra - in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia e il Polo Museale del Friuli Venezia Giulia- intende essere la prima di una serie di iniziative con l’obiettivo di portare in successione e con cadenza semestrale ad Aquileia opere d’arte significative provenienti da musei e siti colpiti dai tragici attacchi del terrorismo fondamentalista.
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Niente, più niente al mondo - Teatro Piccolo Eliseo (Roma)
Scritto da Ilaria Guidantoni Sabato, 05 Dicembre 2015
Dal 2 al 13 dicembre. Interpretazione convincente, profonda, con momenti di amara comicità e tanto dolore. E’ il monologo di una madre di famiglia che si consola con il vermouth per una vita avara di soddisfazioni, senza prospettive e sogni. Niente, più niente al mondo come ne’ “Il cielo in una stanza”, solo che la protagonista di questo interno popolare torinese non ha neppure mai visto il cielo e i suoi sogni sono morti prima di nascere. Spettacolo terribilmente credibile e di un’attualità spiazzante, in un crescendo tragico dove la tragedia è il quotidiano.
Item fulltext
Produzione Casanova Teatro in collaborazione con Razmataz presenta
NIENTE, PIÙ NIENTE AL MONDO
di Massimo Carlotto
adattamento teatrale di Nicola Pistoia
con Crescenza Guarnieri
scena Francesco Montanaro
costumi Sandra Cardini
luci Marco Laudando
regia Nicola Pistoia
aiuto regia Cristina Baldassarri
datore luci Francesco Barbera
fotografie di scena Barbara Ledda
ufficio stampa Le Staffette
Al Piccolo Eliseo Crescenza Guarnieri torna in scena dal 2 al 13 dicembre con lo spettacolo "Niente, più niente al mondo", tratto dall’omonimo libro di Massimo Carlotto, con l'adattamento teatrale e la regia di Nicola Pistoia. E’ la storia in forma di monologo di un intenso dramma familiare tra noir e racconto sociale. E’ un crescendo inesorabile con un finale nebuloso che sapientemente salta la narrazione dei particolari e si affida all’occhio e all’intesa dello spettatore. La donna, sola in scena, come in un delirio straziante, ironico e mai patetico, rievoca la propria storia e quella drammatica della sua famiglia, il rapporto con il marito e la figlia unica, tra bisogni e ossessioni, vite perdute, sogni infranti, il dio denaro, una battaglia per dimenticare.
Giovane sposandosi si trasferisce dal paese nella grande Torino, meta di sogno e grande delusione: è alla catena di montaggio della Fiat che ha perso la salute il padre ed è il buco nero che inghiotte i sogni. E’ stato il matrimonio il giorno più bello della sua vita, l’unico per il quale ha indossato un abito importante, l’ultimo vissuto come una promessa. Di allora ricorda la speranza, le fantasie mai avverate e le note di una canzone, “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, cantata alla chitarra dal cugino del marito: sono i ricordi della promessa di giorni felici mai arrivati, in un quotidiano senza storia e senza musica.
La recensione integrale su Saltinaria.it
Dal 2 al 13 dicembre. Interpretazione convincente, profonda, con momenti di amara comicità e tanto dolore. E’ il monologo di una madre di famiglia che si consola con il vermouth per una vita avara di soddisfazioni, senza prospettive e sogni. Niente, più niente al mondo come ne’ “Il cielo in una stanza”, solo che la protagonista di questo interno popolare torinese non ha neppure mai visto il cielo e i suoi sogni sono morti prima di nascere. Spettacolo terribilmente credibile e di un’attualità spiazzante, in un crescendo tragico dove la tragedia è il quotidiano.
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Produzione Casanova Teatro in collaborazione con Razmataz presenta
NIENTE, PIÙ NIENTE AL MONDO
di Massimo Carlotto
adattamento teatrale di Nicola Pistoia
con Crescenza Guarnieri
scena Francesco Montanaro
costumi Sandra Cardini
luci Marco Laudando
regia Nicola Pistoia
aiuto regia Cristina Baldassarri
datore luci Francesco Barbera
fotografie di scena Barbara Ledda
ufficio stampa Le Staffette
Al Piccolo Eliseo Crescenza Guarnieri torna in scena dal 2 al 13 dicembre con lo spettacolo "Niente, più niente al mondo", tratto dall’omonimo libro di Massimo Carlotto, con l'adattamento teatrale e la regia di Nicola Pistoia. E’ la storia in forma di monologo di un intenso dramma familiare tra noir e racconto sociale. E’ un crescendo inesorabile con un finale nebuloso che sapientemente salta la narrazione dei particolari e si affida all’occhio e all’intesa dello spettatore. La donna, sola in scena, come in un delirio straziante, ironico e mai patetico, rievoca la propria storia e quella drammatica della sua famiglia, il rapporto con il marito e la figlia unica, tra bisogni e ossessioni, vite perdute, sogni infranti, il dio denaro, una battaglia per dimenticare.
Giovane sposandosi si trasferisce dal paese nella grande Torino, meta di sogno e grande delusione: è alla catena di montaggio della Fiat che ha perso la salute il padre ed è il buco nero che inghiotte i sogni. E’ stato il matrimonio il giorno più bello della sua vita, l’unico per il quale ha indossato un abito importante, l’ultimo vissuto come una promessa. Di allora ricorda la speranza, le fantasie mai avverate e le note di una canzone, “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, cantata alla chitarra dal cugino del marito: sono i ricordi della promessa di giorni felici mai arrivati, in un quotidiano senza storia e senza musica.
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mercoledì 2 dicembre 2015
“11 donne a Parigi”. Anteprima Cinema Adriano di Roma
Scritto da Ilaria Guidantoni Martedì, 01 Dicembre 2015
Nei cinema dal 3 dicembre 2015
Commedia scoppiettante, per certi aspetti surreale al limite del grottesco, dal tono francese – con qualche caduta e lunghezza eccessiva – tutta al femminile. Il maschio ne esce sconfitto, debole e vinto in un modello certamente francese, con l’intraprendenza un po’ cinica e ai limiti della malignità della complicità al femminile.
Due ore di ritmo serrato, sul tono del rosso, vero fil rouge, di una commedia giocata sull’eros e sul ritmo ormonale delle donne, 11 donne a Parigi a primavera per 28 giorni, sfaccettature dell’universo femminile e ognuna molte donne ad un tempo. La commedia – titolo originale (e più divertente) Sous le jupes des filles - di maggior successo in Francia degli ultimi anni, arriva in Italia. Se l’avvio è frizzante e leggero, il tono si fa in certi punti surreale, quasi un po’ claustrofobico – tra manie, paure, ossessioni, fisime e tic delle protagoniste – perfino grottesco, lasciando alla fine l’amaro in bocca e una nota di speranza. E’ un affresco sulla debâcle sentimentale e le voragini psicologiche delle donne di fronte al mondo dei sentimenti e dell’intimità. Un mosaico amaro dove la speranza alla fine è data comunque dalla famiglia, rappresentata dall’unica storia del film che fotografa in modo decisamente credibile la società francese.
La recensione integrale su Saltinaria.it
Nei cinema dal 3 dicembre 2015
Commedia scoppiettante, per certi aspetti surreale al limite del grottesco, dal tono francese – con qualche caduta e lunghezza eccessiva – tutta al femminile. Il maschio ne esce sconfitto, debole e vinto in un modello certamente francese, con l’intraprendenza un po’ cinica e ai limiti della malignità della complicità al femminile.
Due ore di ritmo serrato, sul tono del rosso, vero fil rouge, di una commedia giocata sull’eros e sul ritmo ormonale delle donne, 11 donne a Parigi a primavera per 28 giorni, sfaccettature dell’universo femminile e ognuna molte donne ad un tempo. La commedia – titolo originale (e più divertente) Sous le jupes des filles - di maggior successo in Francia degli ultimi anni, arriva in Italia. Se l’avvio è frizzante e leggero, il tono si fa in certi punti surreale, quasi un po’ claustrofobico – tra manie, paure, ossessioni, fisime e tic delle protagoniste – perfino grottesco, lasciando alla fine l’amaro in bocca e una nota di speranza. E’ un affresco sulla debâcle sentimentale e le voragini psicologiche delle donne di fronte al mondo dei sentimenti e dell’intimità. Un mosaico amaro dove la speranza alla fine è data comunque dalla famiglia, rappresentata dall’unica storia del film che fotografa in modo decisamente credibile la società francese.
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