Ilaria Guidantoni, 26 Aprile 2015
Una riscrittura prima che una rilettura, asciugata, depurata, spogliata di ogni ornamento che rischi il decorativismo. Filippo Gili si concentra sulla parola e gioca tutte le componenti dello spettacolo, assottigliandole ma affilandole allo stesso tempo, per tagliare la ridondanza. Il suo Amleto non è attualizzato; è attuale perché coglie l’universale e lo spettacolo scuote perché ha una forza interiore che non ha bisogno di vestirsi di potenza. La mano della regia, senza schiacciare l’interpretazione, guida e disegna la trama, plasma gli interpreti e si vede. Si riconosce senza tentennamenti. Ne esce un lavoro armonico con una parola molto lavorata, ruminata dagli attori, che alla fine convincono perché sono convinti. Hanno interiorizzato il messaggio e lo vivono nell’azione non frontale. Il pubblico è immerso nello spettacolo che si muove con continuità tra platea e palcoscenico, senza semplici incursioni, né ammiccamenti, e neppure strattonando lo spettatore.
Compagnia Stabile del Molise presenta
AMLETO
di William Shakespeare
con Daniele Pecci
regia e adattamento di Filippo Gili
con Pier Giorgio Bellocchio, Massimiliano Benvenuto, Silvia Benvenuto, Ermanno De Biagi, Pierpaolo De Mejo, Vincenzo De Michele, Pietro Faiella, Filippo Gili, Arcangelo Iannace, Liliana Massari, Daniele Pecci, Omar Sandrini, Antonio Serrano
scene Francesco Ghisu
costumi Daria Calvelli
disegno luci Giuseppe Filipponio
assistenti regia Ludovica Apollonj Ghetti, Francesca Bellucci
La regia di Gili non regala effetti speciali a nessun livello ma lascia una persistenza lunga nel gusto, armonica ed emotivamente forte. Elegante, composta perché non ha bisogno di trucchi da prestigiatore. Non vuole incantare nessuno e non dà risposte ma pone domande attraverso la credibilità dei personaggi. Nella scrittura che sfronda e taglia senza alterare la storia, c’è un’operazione di pulizia che rispetta il linguaggio classico e asseconda gli ‘alti’ e i ‘bassi’ della tragedia quale rappresentazione della vita che, rispetto alla commedia, più che distinguersi dal lato del genere, tragico rispetto al comico, nell’interpretazione “giliana” sale al di sopra della commedia per l’universalità della sua portata.
Per sottolineare questo compito, il dialogo dell’uomo con se stesso, il cuore della sua relazionalità nella famiglia, l’attaccamento terrestre e la tentazione del cielo - temi che sembrano favoriti per il regista, insieme alla meditazione sulla morte che pare interessarlo più della riflessione intellettualistica sull’esistenza - Filippo toglie l’enfasi propria dei potenti per regalarci la forza di parole spesso appena sussurrate. Il marcio della Danimarca diventa il male dell’epoca e l’arroganza dei potenti che credono di potersi permettere tutto, di poter calpestare i sentimenti ed annullare i valori morali, un tema di attualità. Solo che il messaggio non è banalizzato nell’attualizzazione; è piuttosto universalizzato, distillato oltre la temporalità, il contesto e il caso.
La recensione integrale su Saltinaria.it
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