Scritto da Ilaria Guidantoni Giovedì, 01 Ottobre 2015
Assolutamente da vedere il ritorno delle opere dello scultore Henry Moore alle Terme di Diocleziano che si sposano nella loro severa sinuosità, rigorosa morbidezza, classicità fusionale tra gli archetipi dell’antichità e l’esigenza di rompere le righe della contemporaneità, in modo armonico nel sontuoso spazio della romanità. Perfettamente.
Roma - È stata grande l’attesa per il ritorno delle opere dello scultore britannico Henry Moore (1898–1986), assente dall’Italia da vent’anni, da quando cioè la Fondazione Cini di Venezia gli dedicò un’imponente rassegna all’isola di San Giorgio Maggiore. Un’attesa che non deluderà quanti visiteranno l’esposizione che unisce poche grandi sculture e qualche bozzetto alla serie dei disegni, grazie anche all’ambientazione mozzafiato di questi grandi ambienti, severi ma luminosi, nei quali la luce filtra infrangendosi e frantumandosi senza pesantezza né uniformità. La continuità tra la penombra interna e la luce del giardino, la fluidità del cammino all’interno del museo che si apre improvvisamente sulla certosa interna da una parte, sull’antica piscina e ancora sul fronte della cristianità guardando l’adiacente Santa Maria degli Angeli, custodendo poi in sale e salette e meandri una mole di antichità preziose, consentono una fruizione ottimale. L’impressione in un allestimento essenziale, senza effetti speciali, quanto rispettoso del luogo e delle opere dello scultore, è di una passeggiata senza fratture tra antico e moderno, dove l’elemento della classicità, forma di eleganza universale, non soggetta a mode come direbbe Hans Georg Gadamer (in Verità e metodo). Rispetto alla maggior parte delle mostre che pur in un allestimento di pregio creano la frattura tra ambiente e opere e ancora tra viaggiatore e spettatore, rendendo palese che siamo in una mostra concepita ad hoc, qui si percepisce il senso di incantamento della natura.
La recensione integrale su Saltinaria.it
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