Scritto da Ilaria Guidantoni Sabato, 18 Luglio 2015
Dire il tragico è stringere la mano alla contraddizione, accogliendola, standoci dentro, in una parola, aprendo le porte alla vita dove i generi letterari non sono separati come nei manuali. E’ rendere attuale l’universale senza forzature e volgarizzazioni, addomesticarlo, senza enfasi e senza appunto teatralizzazione per restituirlo autentico e credibile, fuori dagli stereotipi. Attingere dall’archivio della vita per recitare e non da quello molto più limitato e usurato del teatro è la scommessa della regia di Gili, fino al 22 luglio “in scena” con un laboratorio su "Casa di bambola" di Henrik Ibsen.
Abbiamo incontrato il regista romano Filippo Gili alla vigilia del suo seminario su “Dire il tragico” dedicato a Casa di bambola di Henrik Ibsen e abbiamo assistito alla giornata di esordio di un lavoro rivolto ad attori con una formazione già consolidata nonché professionisti, presso le Carrozzerie N.O.T. in zona Portuense fino al 22 luglio. Questo seminario arriva a pochi mesi di distanza da un altro dedicato all’Amleto di Shakespeare e all’Antigone di Sofocle.
Innanzitutto perché la scelta di Ibsen e in particolare il focus su quest’opera?
«E’ una scommessa perché si tratta di un autore difficile e recepito come datato, quasi ostile, anche se tremendamente - forse è il caso di dire, tragicamente - moderno. La sua costruzione è fatta di mattoni e non di ovatta. Ne risulta un edificio spigoloso, con una scrittura rudimentale che, secondo Anton Cechov, a suo parere non conosceva “le cose della vita”. Il rischio per un regista è di renderlo grottesco, caricaturale e cristallizzarlo nel suo ambiente e nel suo mondo storico, mentre ancor oggi Ibsen ha molto da dire, seppur si renda necessario un cambiamento nel linguaggio. E’ questa la sfida: recuperare le dinamiche e il profilo psicologico, tutt’altro che ingenuo e superato, senza rischiare il patetico o il ridicolo per lo spettatore odierno.»
Quali i temi essenziali che ci parlano ancora?
«L’ossessione di colpire il mondo piccolo borghese che, attualmente, più che una classe o fascia sociale resta una categoria dello spirito; e la dinamica del rapporto coniugale, anche nella forma della convivenza, tra uomo e donna, nell’emersione dei vizi tipici di una forma costrittiva di relazione. Per rendere visibile ma credibile e ancora viva più che vera questa condizione affettiva occorre fuggire il grossier e la caricatura, per entrare nelle pieghe dell’ironia sottile. Ecco che il tragico a volte provoca il riso, quant’anche amaro.»
L'intervista integrale su Saltinaria.it
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