mercoledì 3 giugno 2015

“EU 013 L’Ultima Frontiera” di Alessio Genovese

Ilaria Guidantoni Martedì, 02 Giugno 2015

Prima Mondiale alla 54° edizione del Festival dei Popoli

Prima Internazionale Festival di Rotterdam IFFR 2014

Il primo film documentario girato nei C.I.E. italiani uscito nel 2013, torna tristemente di attualità non solo per il lavoro “artistico” innovativo quanto per la tematica. Ho avuto l’occasione di vederlo ad Erice in occasione della conferenza internazionale “The Mediterranean as Seen by Insiders and Outsiders” sponsorizzata dal Mediterranean Centre for Intercultural Studies, che si è tenuta ad Erice tra il 27 e il 30 maggio 2015. Originale nel taglio, documentario non freddo, non tecnico, non crea separazione tra intervistatore e intervistato ma ascolta le voci in una sorta di narrazione continua, tra testimonianze variegate di tutte le parti in causa: giornalisti, operatori, forze dell’ordine, “detenuti”. Non solo politicamente corretto o non tale in senso formale è una presa diretta nel vero senso della parola e per questo apprezzabile particolarmente, denotando un’esperienza professionale ed una capacità empatica forte da parte dei realizzatori. Alessio Genovese ci ha raccontato infatti di aver avuto permessi solo per tre ore di sosta nei centri, un intervallo irrisorio, per incontrare l’altro e riuscire a muoversi in uno spazio sconosciuto. Quello che vorrei sottolineare è la continuità tra reportage e film realizzata in una sorta di dissolvenza naturale: non è solo un reportage, non è un film documentario, è una testimonianza che si nutre di culture diverse e il risultato è fluido ed emozionante. Un altro elemento sul quale vorrei focalizzare l’attenzione è l’importanza data all’ambiente architettonico come una rispondenza dissonante all’aspetto umano: la violenza disumanizzante degli ambienti e la capacità dell’inquadratura e dello zoom su alcuni particolari dove lo sguardo della ripresa si pone senza enfasi ma con grande capacità critica in grado di suscitare emozioni e geometrie dell’anima. I centri di accoglienza si raccontano come centri di detenzione, anche senza bisogno di parole. Ne emerge l’assurdo di un costo economico oltre che sociale che crea un’economia distorta e un peso psicologico e sociale, là dove potrebbe esserci un’occasione di sviluppo.

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